di URANO CUPISTI
Ultima tappa: ghepardi, elefanti, un meteorite, nessun leone (che smacco!), l’emozione dell’incontro col rinoceronte bianco e la rivalsa sul pestifero compagno di viaggio.
Negli ultimi due secoli la fauna della Namibia ha pagato dazio alle ben pagate battute di caccia grossa organizzate da europei ed americani. Senza contare i cacciatori di frodo di elefanti e rinoceronti, fonti d’avorio e di corno.
Proprio mentre stavo organizzando il viaggio (era, lo ricordo, il 2003) apparve sulla stampa un servizio sul corno del rinoceronte che, al mercato nero, raggiungeva prezzi esorbitanti: 95mila dollari al kg. Calcolando il peso di ogni singolo corno, ogni rinoceronte poteva rappresentare un affare da un milione di dollari.
Come trofeo? No, come ingrediente di preparati tribali contro il cancro, l’impotenza, l’influenza o semplicemente i postumi di una bornia. Ovviamente senza alcun fondamento scientifico.
In effetti, pensai una volta sul posto, al mio viaggio in Namibia mancava l’avventura africana vera, quella degli incontri con i grandi felini, giraffe, zebre, antilopi, elefanti. E soprattutto lui, il rinoceronte bianco.
Allora mi feci aiutare da Maximilian, il mio dinamico organizzatore e accompagnatore: disse di raggiungere il Parco Nazionale Etosha in due giorni e di rimanercene altri tre, infine rientrare verso Windhoek con uno stop di due giorni al Parco Nazionale dell’Altopiano del Waterberg per l’incontro col rinoceronte e la visita al meteorite Hoba.
Lasciai Swakopmund di buon’ora. Dovevo percorrere la n. 82 fino a Okahandja, crocevia con la statale 81 che avrei percorso verso Nord. Trovai la cittadina piena di turisti che affollavano il mercato all’aperto per acquistare falso artigianato delle tribù Herero. C’era il solito vecchietto che scolpiva il legno e la moglie e figli che vendevano oggetti made in Zimbabwe.
Passai la notte al Ombo Rest Camp, grazioso rest camp consigliatomi da Maximilian (seppi poi che il teutonico ne era il proprietario), pensando già agli incontri con le fiere selvagge.
Al mattino seguente, via verso nord per raggiungere la riserva naturale di Okonjima. Anche questa su segnalazione di Maximilian. Ovviamente il lodge indicato per la sera era uno dei suoi.
Arrivato al Otjiwa Safari Lodge, prevedibile colpo di scena: la 4×4 parcheggiata a fianco della mia era quella, inconfondibile, dei signori Rossi e del loro figlio sapientino, che mi ossessionavano fin dal mio arrivo nel paese. Li prevenii chiedendo loro di fare gruppo per il resto del viaggio. Così, almeno per una volta, potevo illudermi di essere stato padrone del mio destino.
A Okonjima trovai ghepardi in totale libertà, evento raro. Infatti non rimasi deluso. La serata fu una di quelle didattiche, intorno al fuoco a conversare sulla protezione e il reinsertmento in natura degli amimali cresciuti in cattività. Il sapientino mi tartassò di domande su tutta la fauna africana, perfino sui gatti selvatici, le genette, gli otocioni e le mellivore. Per liberarmi, alla fine esclamai: sono interessato solo alla flora. Errore, anzi disfatta: estrasse dallo zaino un libro specifico sull’argomento e vai d’interrogatorio.
Durante una pausa lungo il tragitto verso Parco Nazionale Etosha, ormai rassegnato, chiesi al sapientino di parlarmi dell’Etosha.
Lui non si fece pèregare: “L’Etosha National Park occupa oltre 22.000 Km², con oltre 114 specie di mammiferi, centinaia di specie di uccelli, rettili, anfibi. Nel territorio si alternano paesaggi come savane, pianure immense, foreste fitte e, al centro, un grande deserto salino chiamato Etosha Pan. È chiaro e facilmente intuibile che, se vogliamo incontrare animali specifici, dobbiamo seguire i sentieri che portano verso concentrazioni di vegetazione e pozze d’acqua. Sono stati creati piccoli laghetti per realizzare punti di avvistamento sicuri. Vi informerò più dettagliatamente giorno dopo giorno”. Deglutii.
Entrammo nel Parco. Atmosfera unica e grande emozione all’avvistamento dei primi animali. Ci trovammo accerchiati da mandrie di elefanti che si muovevano mescolandosi a giraffe, zebre, gnu ed impala. Obbligo di rimanere fermi e non disturbare. Dopo una trentina di chilometri arrivammo al nostro lodge, il Namutoni, un fortino costruito dai tedeschi all’inizio del XX secolo come base militare. Prima che facesse notte era previsto il rito dell’abbeverata. Non dimenticherò mai quelle scene in lenta sequenza: prima le zebre, gnu e impala a seguire le giraffe con a turno la giraffa sentinella pronta a dare l’allarme per eventuale presenza di un felino ed infine gli elefanti. Il tutto in un silenzio totale. Ultimi ma non ultimi alcuni sciacalli, pronti ad affrontare la notte in cerca di prede.
Il mattino seguente, dopo l’alzabandiera accompagnato dal suono di una tromba, andai a curiosare nel registro degli avvistamenti del giorno precedente, poi ci muovemmo. E incontrammo di tutto. Tranne i leoni. Andare in Africa e non vedere un leone. Solo adesso ho il coraggio di raccontarlo.
Sulla via del Parco Nazionale dell’Altopiano del Waterberg. il mio giovane accompagnatore riprese la parola. “L’altopiano di Waterberg ha una estensione di oltre 400 km² ed è posizionato ad una altezza di poco inferiore ai 2.000 mt s.l.m. Un sistema naturale permette alle acque piovane di formare falde acquifere nel sottosuolo e rendere il plateau ricco di folta vegetazione”.
Arrivammo a metà giornata all’Ohange Safari Lodge, vicino al villaggio di Okaputo. Base per le due ultime escursioni: l’altopiano e il meteorite Hoba. “Il meteorite di Hoba – ovviamente era sempre lui, il sapientino, a parlare – si chiama così perché prende nome dalla fattoria nella quale è stato ritrovato. Caduto sulla terra più di 80.000 anni fa è stato ritrovato solo nei primi del ‘900. Composto da 84% di ferro, circa 16% di nichel, con alcune tracce di cobalto e ricoperto da incrostazioni di idrossido di ferro. Ha la forma di una lastra di metallo tondeggiante di diametro di circa 2,7 m, dello spessore di 1 metro e dal peso originale di 66 tonnellate. Peso originale perché l’attuale è di circa 60 tn. La differenza è dovuta al saccheggio di pietre-souvenir avvenuto fino al 1967. Dopo è stato posto sotto il controllo governativo come ”monumento nazionale”.
Presi la palla al balzo e, forte delle mie conoscenze in materia, lo fulminai: sai perché non c’è alcun cratere?
“No“, rispose lui imbarazzato.
Perchè durante la penetrazione nell’atmosfera il meteorire è rimbalzato più volte, come un sasso piatto lanciato radente sulla superficie di un lago, e questo ha rallentato molto la sua velocità, gli spiegati. Colpito e (quasi) affondato.
Il mattino seguente era il gran giorno, quello del rinoceronte. Salimmo su fuoristrada scoperto, tutti vestiti rigorosamente color cachi. Vietati abiti, foulard, cappellini colorati.
Arrivammo in vetta all’altopiano. La giornata era bellissima con un cielo terso e un panorama stupendo su poggi di pietra e l’arida savana ai nostri piedi. Giraffe, zebre, gazzelle e tanti uccelli intorno a noi in quel paradiso verde incredibile a due passi dal cielo.
Improvvisamente la guida ci intimò di fare silenzio, spense il motore, abbassò il vetro di fronte a lui ed imbracciò il fucile. Difficile da dimenticare.
Dalla vegetazione cespugliosa a pochi metri da noi uscì “lui”, l’atteso. Era tanto, veramente tanto. Si accorse della nostra presenza, si fermò al centro del sentiero e sentimmo più volte il suo verso. Un verso che ancora oggi non ha un nome. Alcuni dicono che, forse, “torrisce”.
Attimi di ammirazione mista a fifa, col mio sguardo che si alternava tra la figura maestosa dell’animale e il fucile della guida, pronta a sparare in caso di una carica. Ma il rinoceronte, così come era apparso, si dileguò nella fitta boscaglia. La sua epifania fu ovviamente l’argomento della conversazione della serata, la mia l’ultima in Namibia.
Ma avevo deciso di aspettare proprio il momento dell’addio, lo scalo all’aeroporto di Johannesburg, per giocare il mio asso nella manica e prendermi la rivincita sul saccentissimo figlio dei coniugi Rossi.
Senti, gli chiesi a bruciapelo prima di salutarsi, lo sai che verso fa il rinoceronte?
Lui sbiancò, cercò di balbettare e poi rimase muto.
Io sospirai di soddisfazione e presi la mia strada.