Nell’ultimo decennio è avvenuto un lento ma inesorabile cambiamento. Che ha reso il libero professionista meno garantito, ma più padrone di sè. Con tante questioni deontologiche da risolvere, però. La soluzione? Adattarsi o morire. E infatti…

Se dieci anni fa mi avessero chiesto il senso di questo post, avrei pensato a un lezioso giochino dialettico. Poi nella nostra professione sono successe parecchie cose. Forse troppe. Ed è cambiato quasi tutto.
L’editoria tradizionale è andata a picco, trascinando a fondo quella che, professionalmente parlando, era l’appendice attraverso la quale viveva il rapporto tra giornalisti autonomi e testate: la committenza. Quella vera, intendo. Che nella normale dinamica di domanda e di offerta e nella naturale altalena dei compensi all’interno di una certa forbice, regolamentava la produzione per gli uni, e gli acquisti per gli altri, di contenuti giornalistici.
Chi si collocava all’interno della forbice poteva dirsi – ed in effetti era – un professionista, cioè uno che viveva di quel lavoro. E da tale era visto, trattato, considerato dagli editori.
Ora tutto questo non c’è più: il crollo dei compensi e la crescita di chi è disposto a lavorare gratis o sotto costo (poco importa se per scelta, necessità o inconsapevolezza) ha in sostanza dilettantizzato il mestiere. Tutti lo fanno e nessuno ci campa.
Si è così materializzato, fino a divenire costume abituale, un fenomeno parallelo: la transumanza delle firme. Cioè il disinvolto e reversibile passaggio di giornalisti da e tra testate diverse.
Se una volta il giornalista freelance si identificava innanzitutto con i giornali per i quali abitualmente scriveva (con un implicito obbligo di non concorrenza), piano piano il rapporto si è capovolto: indebolitosi il rapporto di appartenenza legato alle committenze, oggi è la firma che come un’ape passa di fiore in fiore. Spesso trascinando con sé, da un giornale a un altro, consistenti fette di lettori-follower.
Con l’affermarsi della rete come fonte primaria di informazione rispetto alla carta, quanto sopra è diventato anche molto più “liquido” e veloce.
Grazie poi al proliferare delle testate on line, tanto la collaborazione occasionale (spesso gratuita) quanto il passaggio a – e perfino il legame con – più testate contemporaneamente sono diventati la norma.
Tutti fattori che hanno finito per svuotare dall’interno la figura del freelance classico, privandola dei suoi connotati costitutivi: la redditività, la committenza plurimandataria, la natura fiduciaria del rapporto e il vincolo di appartenenza che ne derivava.
Al suo posto si è insinuata la figura del giornalista indipendente.
Che in apparenza è assai simile al suo antenato, il libero professionista. Ma che invece se ne diversifica in modo sostanziale.
La sua professionalità non è sancita né riconosciuta dal fatto di ricevere incarichi congruamente remunerati da parte di un editore, ma dal fatto di avere un numero stabile e fedele di lettori disposti a leggerlo nelle sue frequenti transumanze. In questo, e quindi nella sua implicita autorevolezza, risiede anche il potere contrattuale che egli può esercitare sul mercato editoriale. Non tanto per ottenere incarichi di lavoro, ormai facilissimi da spuntare, ma corrispettivi di entità professionale per i medesimi.
Ovvero compensi tali da garantirgli l’indipendenza di pensiero, quindi la terzietà e pertanto l’autorevolezza che sono alla base della fiducia che il lettore ripone in lui.
In altre parole, la solidità del rapporto con il lettore – che “seguendo” una firma conferisce ad essa il prestigio e perciò i “click” – è divenuta il tramite della relazione economico-professionale, che prima era diretta, tra giornalista e editore.
In apparenza potrebbe sembrare che sia cambiato poco rispetto a prima.
E forse per il lettore è così.
Ma per il giornalista il mutamento è epocale.
La credibilità non dipende più principalmente, come una volta, dalla testata ospitante, che era custode della propria autorevolezza, ma da lui stesso. A lui è rimesso il compito di dare coerenza alle proprie posizioni e alle proprie apparizioni. Coerenza in base alla quale il lettore giudica la sua credibilità.
Di questo complesso rapporto è ormai parte integrante anche il cosiddetto selfpublishing, cioè la tendenza di molti professionisti ad aprire loro testate on line o, in subordine, blog di informazione giornalistica. Testate che di fatto entrano a far parte dell’offerta editoriale, aprendo così non poche criticità sul versante dei modi della loro sussistenza economica e della praticabilità deontologica della figura del giornalista-editore.
Gli interrogativi, insomma, fioccano.
Può, e fino a che punto, un giornalista essere imprenditore? E di chi (se non di un Ordine che però sembra largamente impreparato alla novità) il compito di controllare che egli resti sempre e comunque entro i binari della professione?
La risposta risiede forse nel titolo che apre questo post: l’indipendenza del giornalista.
Un’indipendenza reale, però, da dimostrare continuamente e da sottoporre all’unico giudice rimasto sul campo.
E’ dunque il lettore il custode finale della professione? Gli aedi del web e del blogging ne sono certi e di ciò essi fanno bandiera per nascondere tornaconti spesso inconfessabili.
Ma lo affermava già Montanelli, in tempi assolutamente non sospetti e del tutto a-digitali.
Ancora molto prima di lui, però, qualcun altro si chiedeva: quis custodiet ipsos custodes (cioè “chi controllerà i controllori”)?
Ecco, appunto.