Il 6 luglio esce “Aver molto viaggiato” di Federico Formignani. Dal titolo pare un libro di viaggi. Invece no: è un libro “di viaggi rivissuti e descritti”. Differenza enorme. E siccome abbiamo “molto viaggiato” insieme, provo qui a spiegare perchè.

 

Nascondersi dietro a un dito non serve, quindi lo dico esplicitamente: aspettavo questo libro da molto tempo.

Primo, perchè sapevo quanto Federico Formignani, amico carissimo oltre che collega di vaglia, tenesse a quest’opera e quanto impegno ci ha profuso, lavorando neotericamente di lima per molti mesi. Secondo, perchè ero curioso di leggere, vergati dalla sua penna sempre pungente, ma comunque pacata ed elegante, la rivisitazione delle mille peregrinazioni compiute nell’arco di una lunga carriera di giornalista-viaggiatore (lo scarto tra le due figure, in certi professionisti, è minimo, ma qui l’ordine non è casuale). Filtrate inoltre, rimetabolizzate, arricchite con quell’occhio inesorabilmente acuto che la miscela tra esperienza, vita vissuta e tempo trascorso dona a uno scrittore.

Quindi, quando ho avuto tra le mani questo Aver molto viaggiato(Polaris editore, 315 pagine, 18 euro) l’istinto è stato ovviamente quello di sfogliarlo e immergermi nei racconti delle esperienze vissute tra il 1976 e il 2013 in Nepal, Corea del Nord, Cuba, Yemen, Zimbabwe, Thailandia e tanti altri paesi (del resto l’autore ne ha visitati oltre cento), inclusa la prediletta Malta. Poi, con divertita sorpresa – era ormai notte fonda – verso la fine mi sono imbattuto nel “Bestiario minimo” del volume, ovvero una specie di appendice-silloge delle storie più strane vissute in viaggio trovandosi a contatto con gli animali, dal classico leone ai meno frequenti formichiere, koala e wallabies. Menzionati anche i gatti, ma la vicenda di quello (finlandese) a causa del quale, una volta, per poco Federico non ci rimise le penne è stata misteriosamente inserita tra i racconti principali. Forse perchè, lieto fine a parte, la storia non aveva proprio nulla di entusiasmante.

Lette dunque oltre un centinaio di pagine e riannusata lì l’aria di almeno una quindicina di angoli di mondo, prima di rimandare il seguito al giorno dopo ho pensato bene di dare al libro una sfogliata, diciamo così, più tecnica: prefazione, foliazione, risvolti, indice.

Nella prima trovo, tracciato sul filo dei ricordi, un excursus sul senso del viaggiare che da solo vale il libro.

Nell’ultima scopro invece una sezione “ringraziamenti” nella quale, in realtà senza alcun merito ma con mia grande – lo ammetto! – lusinga, mi sono trovato citato. Non mi ero ancora ripreso dal compiacimento e subito sopra vedo, nell’elenco dei capitoli, una postfazione che include la voce “compagni di viaggio“. E pure lì, con un tuffo al cuore, mi trovo non solo citato, ma addirittura dedicatario di un intero paragrafo, con tanto di menzione di una spedizione effettivamente indimenticabile che io e Formignani abbiamo fatto insieme qualche anno fa (eccoci qui al Sela Pass, il secondo passo stradale più alto del mondo a 4170 mt, in Arunachal Pradesh). L’autore si era però ovviamente ben guardato dal mettermi al corrente di questa sua diabolica intenzione.

Ora, se dopo quanto detto procedo nella recensione di questo volume, è solo perchè, prima di trovarmi ignaro evocato tra le righe, me n’ero già letto e ne avevo apprezzato una buona metà, altrimenti avrei avuto parecchie difficoltà a scrivere di “Aver molto viaggiato“, visto il forte legame di amicizia che mi unisce a Federico. Figuriamoci a recensirlo bene, come invece merita.

Perchè al di là della prosa bella e misurata, delle mille osservazioni, delle tante notizie e della passione che traspare dalle pagine, prerogativa solo di chi le cose le ha viste e ripensate davvero, con l’occhio disincantato ma sensibile del professionista, dal libro emerge via via con sempre maggiore chiarezza anche un altro Federico Formignani, quasi autobiografico e, in certi tratti, perfino confessionale. O, meglio, spunta quella parte di lui meno nota agli specialisti del viaggio. Affiorano infatti, chiosa dopo chiosa, molto discretamente, l’uomo di cultura e anche di mondo, il linguista, il dialettologo. Il marito affettuoso, il conversatore, l’intervistatore, lo scandagliatore di animi e di situazioni. Insomma tutto il necessario per fare del libro qualcosa di più di una pur intrigante raccolta di reportage di viaggio. Diciamo, pure, letteratura. Senza però una punta di autoindulgenza nè un minimo di vanagloria, di ostentazione. A riprova che il talento, come la classe, non è acqua.

Un’ultima cosa, ma non secondaria, di natura più strettamente editoriale: “Aver molto viaggiato” è pregevole anche nella veste e nella sua fisicità. Grafica, copertina, carta, caratteri danno un’idea di stretta coesione con il contenuto e fungono da coerente contrappeso a un testo che, come sottolineato, non è solo un racconto. Ne risulta un volume che, perfetto per essere letto (ma non straziato, per favore!) in spiaggia, sta bene anche in verticale sugli scaffali della libreria. Ho fatto la prova. Quindi complimenti, oltre che all’autore, anche alla Polaris che l’ha pubblicato con cura.