Con buona pace dei nostalgici il Sessantotto, inteso nel senso di 1968, non fu un anno buono per tutti.
Ma per qualcuno sì.
In quel millesimo, ad esempio, nacque la DOC Colline Lucchesi: una denominazione rimasta nel tempo, un po’ per forza e un po’ per amore, defilata, discreta, con piccoli numeri, un po’ aristocratica e un po’ emarginata al di fuori della “Toscana tonante” dei grandi vini, dei grandi nomi, dei grandi boom commerciali.
Mettete insieme il forte appeal paesaggistico e architettonico che traina il prodotto, una galassia produttiva piuttosto frammentata tra aziende piccole e medio-piccole, nella stragrande maggioranza dei casi comprese tra le 10mila e le 100mila bottiglie, e un certo tendenziale immobilismo, una vocazione alla conservazione e all’individualismo, diciamo, e avrete un quadro attendibile dello stato dell’enologia lucchese dell’ultimo decennio. Almeno fino a quando una nuova generazione di vignaioli e di stili ha cominciato ad affacciarsi al proscenio per inseguire una linea più audace e green-oriented.
A dare una scossa decisa, per fare il salto di qualità e creare quello che esse stesse hanno definito “un cru che ambisce a diventare lo chateau” della Lucchesia vinicola ci provano adesso tre aziende, che sotto la guida dell’enologo Massimo Motroni si sono messe insieme per produrre un vino a più mani: sono il Colle di Bordocheo della famiglia Chelini, la Fattoria Maionchi della famiglia Palagi e la Fattoria Sardi Giustiniani di Mina e Matteo Giustiniani.
E l’hanno chiamato Mille968: un taglio di Sangiovese (di Maionchi e di Bardocheo) e Merlot (di Giustiniani e Bardocheo) al 50%, 12 mesi di legno di secondo passaggio, bottiglia borgognotta, etichetta d’autore disegnata da Alessandro Grossi.
Vorrebbero che diventasse un vino-simbolo, una sorta di ambasciatore delle Colline Lucchesi, destinato a uscire dai circuiti del consumo locale e andasse incontro ai consumatori e, perciò, a mercati più ampi. In cantina costa attorno ai 20 euro.
Per ora è poco più di un esperimento, meno di un migliaio le bottiglie prodotte (per la precisione 840, cioè 280 pezzi per ognuna delle tre fattorie) dell’annata 2013, la prima, presentata giorni fa proprio a Colle di Bordocheo. Poi nessuna bottiglia della disgraziata vendemmia 2014 e grandi aspettative, invece, per la 2015, che ancora giace nelle botti.
Quello che abbiamo assaggiato è un vino interessante, ancora un po’ acerbo, con un bel colore intenso ma non caricaturale, un naso ricco e cangiante, con note floreali e di frutti maturi che, in dolcezza, poi lasciano affiorare l’impronta della barrique. Effetto che si ritrova anche al palato, con una bocca molto elegante, di gusto piuttosto internazionale, con un lieve un fondo amarognolo e una buona persistenza.
Ho messo in cantina la bottiglia superstite e spero di dimenticarmela per almeno un altro paio d’anni, credo sarà un bel riferire.
E comunque sia, al contrario degli Squallor (qui), il 1968 questi produttori sembra non averli rovinati per niente, direi.