Il leader dei Doors oggi avrebbe compiuto 68 anni. Imperversano le celebrazioni in coincidenza, guarda caso, della tournee da ospizio di due suoi ex compagni di avventura. E così al povero Re Lucertola tocca levarsi ancora una volta da una tomba ove probabilmente riposerebbe volentieri. Magari indisturbato.

 

Il 30 marzo del 1980 feci il mio pellegrinaggio sulla tomba di Jim Morrison, nel cimitero parigino di Pere Lachaise. Timbrai il cartellino, misi il sigillo al rito di passaggio. Una passeggiata sulle foglie umide, tra i sepolcri dei grandi.
E già allora ebbi la sensazione di essere fuori posto.
Non erano passati neanche otto anni dalla morte dell’ex leader dei Doors, il 3 di luglio del 1971. Eppure tutto attorno a quella tomba di terra pesticciata, con i bordi di pietra sbilenchi e qualche scarabocchio vergato a pennarello, già aleggiava un alone vagamente surreale, incrostato di nostalgismo alla buona, di gioventù sfiorita, di stagioni irrimediabilmente trascorse e a volte anche spese male. Si respirava aria di venerazione, sì. Ma una venerazione da reduci, da vecchi commilitoni. Pareva che fossero trascorsi secoli. E che la forza del mito avesse di gran lunga superato lo spessore dell’artista.
Oggi, dal quel 3 luglio, di anni ne sono passati quaranta.
E forse, stavolta, tocca a lui sentirsi fuori posto. Provare un po’ di imbarazzo.
Nessun martire del rock and roll, del resto, ha avuto la chiassosa fortuna postuma di Morrison. Nemmeno Hendrix. Jimi era il “manico”, ma Jim è il “poeta”. Buono per tutti gli usi, va da sé. Dai catarifrangenti per l’Ape alle magliette da bancarella, accanto alla parrucca di Gullit e alla casacca di Ibra. Nemmeno Elvis, nemmeno Lennon hanno saputo suscitare un seguito commercialmente così sguaiato e florido. Forse Marley, non a caso suo compare nella ristretta e poco onorevole silloge dei divi da adesivo. Ma Marley è il sinonimo del “fumo”, non vale.
Jim Morrison invece è sinonimo di cosa? Alcool? Droga? Sballo? Vita dissoluta?
Mah. Non voglio addentrarmi qui sul valore di un musicista certamente non secondario, ma su cui è stato ormai scritto tutto. Addirittura troppo. E di un autore di cui ogni riga è stata declamata, entomologizzata, analizzata, celebrata, sviscerata, citata. Anche se Lester Bangs lo definiva “un vecchio ubriacone” già ai tempi di Morrison Hotel, 1970.
Vorrei fermarmi al simbolo. E chiedermi di cosa sia oggi simbolo di Jim Morrison. Uno che, certamente suo malgrado, continua a imperversare ovunque. E grazie alla quale, quasi mezzo secolo dopo il loro primo incontro losangeleno, gli ex colleghi Ray Manzarek e Robbie Krieger possono permettersi di vivere di rendita imbastendo tour gerontocratici per i principali festival europei e suonando stancamente canzoni-revival che stanno al 2011 più o meno come la fonovaligia Geloso sta all’I-pod. “Cheap thrills” li avrebbe definiti forse Janis Joplin, un’altra che non c’è più e che sta lì nell’empireo con Morrison.
Così, invece di restare sospeso tra le nuvole vaporose sulle quali la mitologia l’ha collocato, il povero Morrison viene ancora tirato per la giacchetta, rievocato senza requie dal medium del music-biz. Disturbato, probabilmente. E investito perfino di responsabilità che non ha, non ha mai avuto e non avrebbe mai voluto avere.
Un’icona, come si usa dire. Prigioniero di se stesso, il povero Re Lucertola.
Oggi avrebbe compiuto 68 anni. E, se potesse, probabilmente direbbe: “Mi chiamo Jim, sono morto da 40 anni. Dimenticatemi“.