L’ospitalità rurale si accinge a vivere i suoi secondi 50 anni. Le celebrazioni della nascita di Agriturist e la fiera Agri&Tour di Arezzo consentono di fare il punto: 21mila aziende (Toscana leader con 4mila) e finalmente un sistema unico di classificazione.
Checchè se ne dica (e desolantemente si legga su certi portali), l’agriturismo – cioè l’ospitalità rurale, ovvero la possibilità di fare vacanze in un’azienda agricola a ciò attrezzata – nacque quando, cinquant’anni fa, il compianto Simone Velluti Zati (qui) dette corpo alla sua intuizione e fondò l’Agriturist. Un’associazione allora indipendente, che è stata l’autentico rompighiaccio per un comparto del turismo che, prima, proprio non esisteva.
Dopo mezzo secolo, quasi negli stessi giorni, l’associazione e il movimento si trovano a fare i conti con una ricorrenza che appare carica di nostalgia, di rimpianti, di certe soddisfazioni e di alcune incertezze per il futuro.
La prima autocelebrandosi in un convegno previsto il prossimo mercoledì 19 novembre alla Fattoria di Maiano a Firenze (il programma è qui), il secondo confrontandosi ad Agri&Tour, la fiera del settore che si svolge (il programma è qui) fino a domani ad Arezzo.
Il messaggio pionieristico di Velluti Zati, un uomo che ha difeso l’autonomia e le idee della sua creatura fino all’ultimo dai pericolosi appetiti extragricoli e intragricoli che già dieci anni fa si andavano profilando, era biunivoco: da un lato indicare agli agricoltori il modo per mettere a reddito un patrimonio architettonico e uno stile di vita fino ad allora concepiti come un onere anzichè una risorsa e, dall’altro, convincere il resto del mondo che la vita in campagna era tutt’altro che polvere, fango, noia e sentori di stalla ma, al contrario, un mondo bellissimo fatto di cose da scoprire.
Sullo sfondo, l’immaginario di una ruralità deteriore e negletta, ereditato dall’inurbamento, dall’esodo dalle campagne e dal cattivo ricordo tramandato ai posteri da chi la campagna l’aveva vissuta profondamente, abbandonandola poi con un certo risentimento. La propaganda per i nuovi stili di vita a misura industriale avevano fatto il resto, incluso l’oblio quasi totale di valori, visioni e tradizioni. La scommessa era sovvertire tutto questo.
Com’è andata la storia più o meno lo sappiamo: prima molta curiosità, poi una certa accondiscendenza snobistica, quindi il boom a cavallo tra i ’90 e il nuovo secolo, con scia di investimenti, speculazioni, fondi pubblici e relative furbate (compresi hotel camuffati da agriturismo e lottizzazioni spacciate per fattorie), infine la crisi, il riflusso in città di tanti che avevano “mollato tutto e aperto un agriturismo“, la selezione naturale dettata da un mercato che ha dovuto fare i conti, pesanti, anche con la crisi globale.
Il bilancio di tutto ciò rimane positivo, ma non florido.
Dire che il 2015, cioè il cinquantunesimo, sarà l’anno della svolta, mi pare esagerato.
Qualcosa tuttavia si muove.
Uno dei segnali viene appunto da Agri&Tour, dove il Ministero delle Politiche Agricole, attraverso il suo sito www.agriturismoitalia.gov.it, ha annunciato finalmente l’unificazione, nel simbolo del “sole”, della classificazione degli agriturismi italiani: addio insomma all’orgia di spighe, grappoli, margherite e girasoli che finora avevano solo contribuito a confondere le idee a un mercato già in affanno. Sembra poco, ma non lo è affatto visto che ci sono voluti 30 anni (la prima legge quadro del settore risale al 1985) per arrivarci. Ora il livello qualitativo delle aziende, in tutto lo stivale, sarà espresso in “soli“: uno per il minimo e cinque per il massimo.
Rimane da riflettere sui dati numerici: 21mila le imprese agrituristiche (ma quante attive e quante in sonno più o meno “controllato”?) formalmente autorizzate sono tante, considerato che in dieci anni, nonostante cioè il periodo commercialmente meno felice, sono comunque cresciute del 60% (gli agriristori addirittura del 70%) e, solo nell’ultimo anno, a dispetto delle procelle economiche globali, del 2,1%.
La sensazione è che il messaggio “bei paesaggi, cibi genuini, vita sana e aria pura” non bastino più e che anche la capacità attrattiva di fitness e enogastronomia sia in netto declino. Se è vero che il turismo esperienziale è la nuova parola d’ordine, credo che anche in campagna ci si debba adeguare. O meglio tornare al passato: più luoghi e gente che hanno qualcosa di vero da raccontare e meno cartapesta. Simone Velluti Zati apprezzerebbe. E non solo lui.