Per il viaggiatore seriale sono il miraggio che si materializza a fine giornata, ti ingloba per la notte e come una bolla di sapone si dissolve al mattino. Senza lasciare traccia. Inutile negare però che a volte ne capitano di indimenticabili.

Chi ci soggiorna giusto per doccia-sonno-doccia-e-via non ha nemmeno il tempo per godersi il bello o il brutto di quelle stanze, che alla fine rimangono tutte uguali.
La regola aurea è che, quando si lavora, le camere devono essere calde, pulite, funzionali e semplici da usare. Stop. Il resto sono dettagli. Lusso e charme sono buoni per le brochure o per i fortunati che, restando a settimane, hanno il modo per apprezzarle. Agli altri, quelli con la valigia nemmeno da disfare, le quattro mura con il soffitto sopra scivolano addosso come acqua fresca.
Eppure…
Notte gotica a Glasgow. Glasgow non è una brutta città, anzi. Non più fredda di tante città britanniche. Ma io avevo una fretta tremenda di tornare a casa. Un’ansia bruciante, inspiegabile. Ero lì solo di passaggio eppure la notte che ci ho trascorso fu un incubo. Albergo enorme, davanti alla stazione. Mezzo vuoto. O forse vuoto del tutto. Spettrale. Palazzo ottocentesco senza fronzoli. Immaginate un ministero o un’università dopo l’orario di chiusura. Solo penombra e deserto. Stanza onesta, ma oltremodo opprimente. Suoni nessuno. Presenze nessuna. Il tempo non passava mai. Dalla finestra vedevo solo le nuvole livide del cielo scozzese. Grigio fuori, grigio dentro, grigio tutto. Angoscia. Cerco il bar: non c’è. In compenso c’è una minicasa da gioco con la luce fioca, tappezzata di moquette decrepita e macchinette a monetina. Avventori presenti: zero, tranne il distributore automatico di lattine. Rientro in camera con i brividi della depressione. Impossibile dormire, impossibile aspettare. Panico. Ad occhi sbarrati ho atteso tredici ore, parse tredici giorni. All’alba piove e io sto per fuggire. Ma il portiere mi intercetta. Gentile, mi trova subito un taxi a metà prezzo per l’aeroporto. Sollievo. Dimidiata Glasgow.
Sono (quasi) come Don Diego, io. Morelia, Messico centrale. Opulenta? Solenne? Ridondante? Barocca? Chissà. Forse. Giudicate voi, guardando qui: la mia stanza era perfino (parecchio) meglio, ma questa è l’unica foto che ho trovato. Come una sacrestia sibaritica. Tutto sapeva di Inquisizione e di Controriforma, in salsa da placido o anche trasgressivo bengodi coloniale però. Alloggio enorme, letto imponente, un trionfo di cuscini e materassi evocatori d’ogni peccaminosa mollezza. Legni intagliati e scuri. Ceramiche ovunque, colori vivaci e toni caldi in una mezz’ombra languidissima. Rammento un sacco di scale, di anfratti, di androni e cortili, giardini pensili, cespugli dal profumo ottundente. Dal balcone, vista accecante sui conventi dei gesuiti e sui campanili rococò di un Messico profondamente ispanico. Il viale giù in basso era troppo largo e trafficato perchè un silente Bernardo potesse portarmi Furia e io mi potessi buttarmici a cavalcioni. Non avevo neppure i baffetti di don Diego de la Vega (ma forse il pizzo del Rodrigo Mendoza in Mission, sì). Eppure, tra quelle coltri, un po’ Zorro gaudente e fuggente mi sono sentito davvero.
Nel lupanare dell’Assam. Alzi la mano a chi non è mai capitata una camera lurida ai limiti, e forse oltre, della praticabilità. Beh, questa li supera tutti. Ricordate quando la pauperistica Lonely Planet classificava gli alberghi in “lenzuola”: 5 lenzuola = ultralindo e 1 lenzuolo = ultrasudicio? Ecco, il rating dell’hotel Sundarban (qui) di Gowahati, cittadona dell’Assam, India orientale, al massimo poteva essere di mezzo lenzuolo. Coi copiosissimi peli d’ogni origine sparsi su tutte le superfici della stanza avrei potuto filare un gomitolo di lana. Le pareti erano tanto istoriate di sudicio da sembrare pitture rupestri, peccato che gli uomini primitivi non ci siano più da un pezzo. Il bagno…quale bagno? Sul letto, un indicibile campionario di macchie di liquidi organici di qualunque natura, talmente fitte e antiche da far sospettare che nessun cambio fosse mai stato fatto da mesi. Ho dormito vestito, si fa per dire, con la testa sullo zaino, che non ho neppure aperto (da qui la mancanza di ulteriore documentazione fotografica, ma chi non si fida chieda al mio compare Fedeform) nel timore che qualcosa potesse entrarci dentro. In uno squarcio nella parete, con vista sulla sottostante discarica di elettodomestici, tutti talmente marci e divorati da un giardino-giungla da sembrare rovine precolombiane, era incastrata la parodia di un condizionatore d’aria. Mosso a pietà, l’ho giustiziato con un calcio risolutore alle 4 di notte: lo zozzo va bene, ma pretendo almeno che sia silenzioso.
Tra anse ed ansie dell’Amur. L’Amur è un fiume straordinario e straordinariamente remoto. Divide la Siberia dalla Mongolia. E scandisce le contaminazioni geografiche, culturali e etniche tra Russia e Cina. Come sia arrivato in quel minuscolo villaggio di etnia russa, ma appartenente alla Mongolia interna cinese, è troppo lungo da raccontare. Dirò solo che è rimasto senza nome (i cinesi non ce lo vollero dire): qualche decina di baracche di legno letteralmente in mezzo al nulla e vicino al grande fiume. “Stanno attrezzandosi per il turismo“, tentò di spiegare con sorriso ambiguo la nostra guida-guardiano mostrandoci le nostre stanze (per capire l’atmosfera, guardate la foto qui). Sguardi perplessi. La padrona di casa, gentilissima, ci illustra i comfort mentre fuori stanno calando le tenebre. “Il bagno è fuori. Per andarci basta uscire stando attenti a lasciare aperta la porta sennò non si rientra. Girate l’angolo a destra avendo cura di non pestare il nostro cane da guardia, che dorme lì ed è mordace. Poi andate più o meno dritto per cinquantra metri, nell’orto. Occhio alle buche. L’ultima fa da latrina. La riconoscete dall’odore e perchè ha una tettoia. Mi raccomando però di fare attenzione: fuori non c’è la luce e quindi è tutto buio. Buon riposo“. Non ho riposato un granchè. Ma rimpiango ancora il mio fido, capiente thermos.
Se le zanzare avevano la taglia, ero milionario. Djerba, Tunisia, 1996. Il resort dei turisti in sommossa era proprio quello, ma ovviamente ce l’avevano taciuto. Qualche sospetto serpeggiava, però. Sulla spiaggia, montagne di alghe che parevano l’Everest. Pareti di un bianco, diciamo, opaco. Molto. Cena di gruppo, poi ritirata. Camera doppia per me e un – all’epoca – quasi estraneo collega. Umida. Di un’umidità, per dirla tutta, insopportabile. Ho un’idea: accendiamo il condizionatore per cambiare l’aria ammuffita. Fu un attimo. Pochi secondi. Dalla griglia uscì mugghiante una nuvola di zanzare. Ma che dico nuvola: un ghibli, un fortunale, una tempesta, un oceano di zanzare. Miliardi. Segue panico, cui presto subentra l’ira. Estraggo furioso una ciabatta dalla valigia e colpisco alla cieca, facendo secchi quattro insetti in un colpo solo. Luca subito mi imita e ne schiaccia cinque. Prendo coraggio e, impugnando una ciabatta per mano, mi avvento all’assalto: almeno dieci morti. L’adrenalina cresce, il mio compagno di stanza si tramuta presto in mosquito-terminator. Violenza inaudita, colpi sempre più difficili. Quasi acrobatici. Passare al tiro al volo è cosa automatica. Lo step successivo sono le prove di abilità gratuita: quattro zanzare in un colpo solo lanciando la ciabatta da sotto la coscia, a metri di distanza dal bersaglio. Fu insomma una lunga notte. E’ proprio vero che sotto le armi nascono i sodalizi più forti. E in Tunisia, prima del nostro passaggio, una camera tinteggiata come la pelliccia di un dalmata non si era mai vista.
E infine: “La stanza è quasi pronta”. Il portiere sorride e mi garantisce che è questione di minuti. Immagino la cameriera intenta a dare gli ultimi ritocchi: per l’ospite di riguardo tutto dev’essere perfetto. Pazienza se il cortile e la hall sono un cantiere. Nel senso di fango, muratori, betoniere, sacchi di cemento con annessi e connessi. Passa un quarto d’ora e mi annunciano che posso salire. Le scale esalano odore di calce fresca che mi sforzo di scambiare per detersivo. Corridoi spogli, lampadine che penzolano. “Pazienza, sarà tutto nuovissimo“, penso per consolarmi. Sto per entrare e dalla mia camera escono un tizio con un martello e un altro con un grande pennello. Mi affaccio incredulo alla porta: stanza con la vernice fresca alle pareti, finestra appena inchiodata nel muro. A mettere il vetro, avvertono, ripasseremo la settimana prossima. In compenso, però il letto è già lì bello e rifatto da qualche giorno. L’assorbente ideale dell’umidità autunnale himalayana a 3500 metri di quota. Benvenuto a Tawang, Tibet. Cuore del buddismo zen. Appunto.