L’argomento infiamma le discussioni e ciclicamente divide l’Italia in due. Dove tutti sono d’accordo, ma la “colpa” è sempre degli altri. La manovra del Governo sta rinfocolando il dibattito, che non esce però dai soliti binari: chi è che evade, come scovarlo e punirlo? A nessuno viene in mente che esiste un’altra, ben più subdola, perniciosissima forma di evasione: l’evasione del lavoro. Una truffa ancora più grave, perchè perpetrata da chi, dal posto, non può essere cacciato praticamente mai, cioè i dipendenti pubblici. Con un’aggravante: per una incomprensibile forma di tacita solidarietà, i molti lavoratori onesti si indignano in privato, ma tacciono in pubblico degli abusi dei colleghi. Brunetta? E’ rimasto in superficie, come chiunque sa benissimo.

Di fisco si può discettare per anni senza mai mettersi d’accordo. Bisogna colpire i ricchi (ma perchè? E’ un reato essere ricchi? A me non sembra, anche se non sono ricco: bisogna invece colpire tutti in proporzione ai loro guadagni, secondo me) e gli evasori. Bella scoperta, questa.
Io (lo so, è molto impopolare e politicamente scorrettissimo) vorrei però rovesciare il discorso, arrivando a dire che talvolta l’evasione (come il lavoro “grigio”) è una (pur illecita) necessità affinchè un’azienda o un’attività professionale sopravvivano. Non è bello? Non è buono? Ok, però è così. E lo sanno benissimo tutti. Buffo, però: da un lato impietosamente si pretende che le imprese e le attività, se vanno male o solo malino, con qualche conto in rosso insomma, invece di arrangiarsi chiudano. Dall’altro si esige, si strepita, si predica affinchè rimangano aperte. Ma pagando tasse che non possono pagare, in quanto basate su redditi presunti ipotizzati da ridicoli e vessatori “piani” fatti sulla carta dai burocrati con foglio, penna e calcolatrice.
Ma andiamo oltre. Siamo scorretti fino in fondo.
Se l’evasione è così drasticamente e moralmente inaccettabile, è accettabile invece uno Stato che è costretto a mantenere una pressione fiscale altissima (che infatti non riesce a controllare) per ripianare le perdite provocate alle casse statali da sacche immani di inefficienza e impunità, da sprechi e mangiatoie, tollerate però in silenzio dal sistema e dalla comunità quasi fossero fenomeni naturali e perfino socialmente utili, anzi indispensabili?
Non è “evasore”, al pari di chi non denuncia i propri introiti, chi “evade” il lavoro non presentandosi in ufficio, o uscendo in anticipo senza permesso, o arrivando sistematicamente in ritardo, o non facendo nulla, o peggio facendo altro (ovviamente al nero) come certi dipendenti pubblici colla doppia o tripla attività svolta, è ovvio, in orario di ufficio? Indennità, incentivi, ferie, permessi, scappatoie, tolleranze di ogni tipo che nel settore privato sarebbero impensabili, perchè economicamente insostenibili, trovano nel pubblico difese a oltranza, barricate, muraglie di rivendicazioni, come se fossero diritti acquisiti e fondamentali.
Può anche darsi che professionisti, commercianti e imprenditori evadano. Anzi è certo. Ma perchè far finta di non sapere che, invece, c’è anche una buonissima parte che per arrivare a fine mese è costretta a lavorare (e per davvero) 14 ore al giorno invece di scaldare la seggiola per sei, e che se non lavora il 27 non riscuote e non ha neppure le ferie pagate, l’assistenza sanitaria e il sindacato a proteggerli? E che, al contrario, c’è una vastissima massa di nullafacenti o pocofacenti pubblici ipergarantiti, ipersindacalizzati, iperabituati a privilegi e sicurezze di cui ormai neppure più si rendono conto, tanto sono avvezzi a rivendicare, lamentarsi, scioperare, puntare i piedi e ottenere? Gli esempi sarebbero miliardi: i custodi dei musei che per essere spostati da una sala all’altra hanno bisogno di una legge ad hoc, i cancellieri in perenne malattia, gli scioperanti da venerdì preweekend, i professionisti ministeriali dello straordinario. Anni fa ho conosciuto un elettricista del Mipaaf che cambiava 40 lampadine alla settimana. Il suo lavoro stava tutto qui. Ma lo svolgeva solo dopo le 14, in regime di straordinario. Prima (ipse dixit) bighellonava, si imboscava, si imbucava alla conferenze stampa (“se magna e poi te danno pure la bbottiglietta de l’olio bono”). E natiralmente si lamentava del poco guadagno.
E’ una verità scomoda, che va detta. Come va detto che la figura del professionista ricco che accumula gran denaro è diventata rarissima. Oggi esistono eccellenti avvocati e commercialisti, tra i quaranta e i cinquanta, che incassano quanto un medio stipendio, ma si portano sul groppone tutte le insicurezze e la precarietà della professione, senza tredicesime e quattordicesime. Farne il bersaglio della mannaia fiscale è non solo ingiusto, ma irrealistico. Succhiare il 50% dei redditi di una persona che lavora è perverso e patologico, sempre. Come lo è tollerare un sistema pieno di buchi di cui non un pugno di furbi, ma legioni di dipendenti pubblici approfitta nell’impunità più assoluta, drenando risorse che altri (i dipendenti del privato, ad esempio) sono chiamati a tappare con le loro tasse.
La verità va detta, appunto. E questa è una delle più scomode. Non so chi nè quando riuscirà a incidere il bubbone, ma finchè questo pus verrà ipocritamente taciuto, ci troveremo sempre a discutere di fisco, tasse e imposte girando intorno al problema reale.
Poi si dice che in Italia il socialismo non ha attecchito. Ha attecchito eccome. Sono milioni i concittadini che, trasversalmente, vengono mantenuti dallo Stato con questo sistema: ti pago poco, ma non ti chiedo nè ti obbligo a fare nulla. Una vita passata in una (noiosa) vacanza. A spese altrui, però.