Lo sport, nel senso della filosofia che ne è alla base, allo sbando. Non da ora, per carità. Ma nelle grandi occasioni le crepe diventano più evidenti e adesso, con le Olimpiadi, c’è il rischio di caderci dentro.
Prendiamo in caso Schwazer. Non in sè, ma in ciò che rappresenta. Giusta o sbagliata che sia, la sentenza dimostra che qualcosa non va. Che il doping c’è e che forse non lo si può eliminare, visto che gareggiano atleti già squalificati. Si parla nuovamente di doping di stato, con Cina e Russia che hanno preso il posto di Urss e Ddr, e di doping regolamentare, con giudizi tecnici e non più o meno pilotati. Qualcuno dirà che è sempre stato così e forse in parte è anche vero. Ma i mezzi odierni per “vedere” sono infinitamente maggiori di prima. Le sole telecamere rendono solare ciò che una volta poteva non essere sotto gli occhi di tutti. Eppure nisba, il sistema si adegua e forse corrompe pure le regie.
Poi c’è il doping tecnologico, la vera nuova frontiera di alterazione dello sport. Dalle bici col motorino interno alle protesi che, anzichè compensare gli handicap come nel caso Pistorius nel 2012, potrebbero domani (o forse già oggi) consentire di superare le prestazioni dei normodotati. Fantascenza? Non credo affatto. E’ solo questione di tempo. Già dimenticati i “costumoni” dei nuotatori?
Per non parlare della tendenziale abolizione dei generi.
Eticamente la si pensi come si vuole, ma nello sport i casi sono due: o si abolisce la scansione tra uomini e donne e si fa una categoria unica (il che vuol dire che nel 95% dei casi le donne perdono per inferiorità fisica), oppure non si permette ai transessuali di gareggiare con le donne. Uno che nasce maschio, fa per anni sport da maschio, si allena da maschio, ha una struttura atletica da maschio non può, solo perchè ha cambiato sesso, affrontare le donne. Perchè il sesso e l’esteriorità saranno pure cambiati, ma la forza resta quella di prima.
Usciamo da questa ipocrisia, peraltro evidente. E che spesso le donne accettano solo per conformismo, ma con giusto malumore.
Alla radice di tutto sta il disegno, perfettamente riuscito, di trasformare lo sport in strumento di spettacolo e di consenso, cioè in strumento di intrattenimento politicamente corretto. In cui gli atleti sono gli attori, nel senso tecnico della parola: quelli che recitano. E il cui professionismo finisce per diventare professionalità. Attori di professione, insomma, che si allenano eccome per raggiungere certi risultati. Ma non nel nome della vittoria, bensì in quello della riuscita della rappresentazione.
Il teatro sono i luoghi scelti per le gare sportive: sempre più improbabili, lontani, logisticamente senza senso, inadeguati. Dai mondiali di calcio del 2022 ai 40° del Quatar alle Olimpiadi di Rio con l’acqua delle piscine verde e i contestatori nelle favelas, dai mondiali di sci a Sochi alla moto GP nel deserto o ai Gran Premi di F1 nei videogame tipo Singapore.
A pensarci bene, del resto, un esempio di pseudosport spettacolare c’è già ed ha un successo planetario: è il wrestling. Dove è tutto finto, ma gli omoni, i muscoli, le acrobazie, i salti, la scena sono veri. il calcio è sulla medesima strada. Gli sport motoristici idem.
Gli atleti diventeranno gli stuntmen dello sport e lo sport diventerà, anzi è già diventato, finzione. Il suo pubblico non saranno più gli “sportivi”, gente insomma magari con la pancetta ma che sa di cosa parla, saranno “fan” onnivori, globali, trasversali, superficiali, senza identità nè costumi nazionali, sesso, gusto. Consumatori seriali di simulazione sportiva.
Magari, poi, è bello così.
Ma a me non piace per niente.