di URANO CUPISTI
Il viaggio prosegue, i paesi cambiano ma il mondo patagonico resta sempre lo stesso. O quasi. Quello andino, quello cileno, i guanachi, il petrolio, le città senz’anima e i luoghi senz’anima viva…
Le forme aliene delle Torri del Paine sono lì davanti a me. Dominano su tutto.
Bienvenidos in Chile. È il saluto con il quale mi accoglie Pedro, il fratello della doganiera cilena di Cerro Castillo, un simpatico señor di mezza età, panciuto e baffuto con i capelli canuti pettinati all’indietro. Mi fa salire su un minivan giallo ocra, nuovo di zecca, e via verso la Patagonia andina, verso altopiani cosparsi di laghi, ghiacciai, con le alte cime della cordigliera.
Lascio al mio inseparabile Moleskine la descrizione: “Il Cerro del Paine sfila alla mia destra. I picchi innevati si slanciano verso l’azzurro del cielo. Il vento violento, impetuoso, agita la superficie dei laghi. I sedimenti danno colore alle acque dal grigio al verde acquamarina. Sembrano gemme incastonate nelle verdi valli andine”.
Arriviamo al Lago Grey, una visione surreale. La lingua di ghiaccio che scende dal Cerro e termina gradatamente nelle acque del lago. La morena di color scuro è testimonianza di vita. Enormi iceberg alla deriva fino ad arrenarsi sulle sponde e sciogliersi lentamente. “Un paesaggio dipinto da Dio dove si ascolta il silenzio”. Le parole di Pedro.
Alla sera, dopo aver cenato nella graziosa Hostaria Grey, fatto amicizia con altri viaggiatori, escursionisti, scalatori, compagni fortuiti di quel momento, intorno al fuoco raccontiamo le nostre esperienze di navigatori del mondo sorseggiando lentamente un mate chissà di cosa. Il fuoco del camino dentro e l’ululato del vento fuori.
Al mattino tante strette di mano, hola, adios, nos vemos en el mundo. La mia avventura andina si avvia al termine sulle rive del lago Grey. Mi aspetta la Patagonia Cilena.
Nel percorrere la stessa pista dell’andata, sul grande altopiano in direzione Cerro Castillo, davanti a noi una strana colorazione all’orizzonte. Cos’è? Chiedo a Pedro. Veràs, señor, veràs.
Centinaia, migliaia di fenicotteri rosa e cigni dal collo nero che ricoprono l’intera superficie del lago. Il tremolio delle acque dona una sensazione cromatica incredibile. Ci fermiamo. Osservo a 360° quanto mi circonda. Nella consapevolezza di trovarmi in una delle zone più selvagge e allo stesso tempo sperdute del mondo. Il Cerro del Paine avvolto da una sciarpa di nubi mossa dal vento che lascia scoperta la vetta da una parte e il colore tremolo dei fenicotteri e dei cigni con il loro gridare dall’altra. Intorno il verde infinito dell’altopiano: la Patagonia Andina.
Abbiamo raggiunto la pianura, diretti a Sud verso lo Stretto di Magellano. I lati della strada, la panamericana, sono bordati da fiori viola, rossi ed arancioni. Sto attraversando la Patagonia Cilena, anch’essa descritta da Bruce Chatwin, il bene e il male, la vita e la morte. Nell’osservare attentamente l’autopista noto un grosso tubo nero che da diversi chilometri ci accompagna lungo il bordo. La nueva riqueza del Chile! Precisa Pedro. Il petrolio dello Stretto di Magellano, tanto petrolio. La nuova realtà: non più estensioni infinite del nulla ma grandi raffinerie con i loro pennacchi di fuoco, dall’odore acre, pungente e i numerosi posti di blocco della polizia. Quanto mi manca il correre libero dei guanachi e dei niandu.
Di fronte a noi Punta Arenas, una grande città ormai città industriale dove il petrolio ne è il motore economico.
Il piccolo museo Salesiano mi scuote: foto di sterminate visioni patagoniche, le cime innevate della Terra del Fuoco, gli sguardi dei pinguini magellanes. Rappresenta il requiem della Patagonia Australe, cosa c’era e cosa non c’è più.
Qui era arrivato anche Bruce, descrivendo le storie fantastiche di esuli, pionieri, uomini d’avventura. Qui aveva raccolto testimonianze d’imprese epiche avvolte nella leggenda ma con un fondo di verità. Qui aveva registrato le malinconiche rievocazioni di follie anarchiche.
Oggi, Punta Arenas, si mostra ai miei occhi come città insignificante alla fine del mondo.
Mai avuta così tanta voglia di fuggire, scappare, ritornare a sognare.
Con la benedizione dei fratelli salesiani via verso il Nord, verso il fascino romantico dell’Isola di Chiloè.
Puerto Montt, punto d’incrocio. Per me la fine della Patagonia cilena a nord e l’inizio di nuove scoperte: la regione dei Laghi.
Crocevia di diversi ritmi: di chi inizia l’avventura e di chi ne è pago o meglio annoiato. È la città dai molti aspetti: commerci, approvvigionamenti, ultimi acquisti. Ma entrando in confidenza a poco a poco si rimane affascinati. Il quartiere del porto, diverso, unico. Gioiello di gusto e raffinatezza. Le costruzioni di legno dipinto, una diversa dall’altra per distinguerle dal mare, per individuare la propria. Il mercato del pesce con i numerosi ristorantini, uno accanto all’altro, dove far cucinare quanto appena pescato e comprato.
Puerto Montt, ritornare a sognare. (continua)