A Perugia, il figlio di tanto padre e il marito di tanta moglie sentenzia: non credo gli articoli vadano pagati e trovo bizzarro che, parlando della nobiltà della professione, si pretenda di monetizzarla. Possiamo lavorare gratis senza sentirci sfruttati. Commenti?
Mettiamo subito le mani avanti.
Primo, a me Luca Sofri è antipaticissimo. Anche fisiognomicamente. Proprio insopportabile. Per come è, per quello che è, per quello che dice, per quello che pensa. A prescindere dalle sue capacità professionali, è ovvio.
Secondo, non lo conosco di persona. Giudico in base a quello che di lui vedo, leggo, ascolto.
Terzo, mi sono antipaticissimi sua moglie e suo padre. Per quello che pensano e per il loro vissuto personale e professionale. Nemmeno loro conosco di persona, ma mi basta così.
Quarto, poichè Sofri Luca è il classico ospite trombone-piacione del Festival del Giornalismo di Perugia (evento del quale più volte ho tessuto le lodi e che ho anche criticato su questo blog), talvolta finisce per essermi tendenzialmente antipatico anche il Festival medesimo, che si è concluso qualche giorno fa.
Ciò non significa tuttavia che io giudichi negativamente a priori qualunque cosa provenga da Sofri o dal Festival.
Tanto premesso, a farmi saltare la mosca al naso sono però le affermazioni, ampiamente in circolazione sul web, fatte dal direttore del Post durante l’incontro perugino di sabato scorso (lui unico ospite), modestamente intitolato “31 domande sul giornalismo“. Sottotitolo: “Ci si può fidare delle collaborazioni esterne? Le notizie devono essere nuove? Si possono inventare i virgolettati? Twitter ha rimpiazzato le agenzie? Si devono mettere i crediti delle foto? Come si correggono i pezzi online? E quelli su carta? Conta ancora essere “sul posto”? Servono, i commenti online dei lettori? Cose che è il caso di chiedersi, e cercare di rispondersi, mentre tutto cambia: le risposte non sono così scontate, ed è utile provare a darle insieme“.
Mi sono guardato bene da andare all’appuntamento, classica fuffa messa su per attirare un pubblico di aspiranti e di principianti, ma me lo godo adesso attraverso filmati e report stenografici.
Che ha detto Sofri?
Una cosa enorme. Come sciocchezza, intendo. Ha fatto l’apologia, anzi la propaganda della cosiddetta economia della gratitudine (qui). Economia della quale sospetto sia un sostenitore interessato. In sintesi: secondo il figlio di tanto padre e il marito di tanta moglie, non è detto che il lavoro giornalistico debba essere pagato. Anzi, può benissimo venire alimentato dalle “soddisfazioni” che esso dà. Sì, avete letto bene. Secondo lui i giornalisti possono, per non dire devono, campare d’aria.
Dall’alto del gilet di cachemire, il maestrino del giornalismo ha moraleggiantemente distribuito questa pillola di etica professionale, alzando il ciglio contro i poveretti di ridotte vedute, attaccati ai soldi e non alla “passione”. Pillola che ha non poco disorientato il popolo presente e fatto incazzare parecchi colleghi. Tra i quali il sottoscritto.
Copio e incollo dal webmagazine del festival (qui), che introduce l’intervento con lo stupefacente titolo “Luca Sofri e il giornalismo, la passione al di sopra del vile denaro” : “Io non credo che il lavoro debba essere pagato. Io credo che qualunque tipo di lavoro possa conoscere anche delle retribuzioni, delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate. Trovo bizzarro che noi stesso che andiamo dicendo che la nobiltà del nostro lavoro deriva da altri fattori, come il servizio alla comunità o la qualità dell’informazione, poi pretendiamo allo stesso tempo che questi aspetti vengano quantificati in sistemi economici e monetari. No, esistono quantità di altre motivazioni e occasioni in cui possiamo liberamente lavorare gratis senza sentirci sfruttati. Anche io, qui, al Festival del giornalismo, lavoro gratis”.
Capito, cari coglioni?
Ecco, io trovo che Sofri abbia perfettamente ragione.
Certo, basta intendersi sul significato delle parole e sul pulpito dal quale vengono pronunciate.
Perchè le “altre motivazioni e occasioni” diverse da quelle di natura economica esistono eccome: si chiamano volontariato. Il quale a sua volta si chiama così perchè è cosa diversa dal lavoro. Il volontariato persegui valori etici; il lavoro, anche il più nobile, è un metodo per procacciarsi redditi e quindi persegue fini economici.
Il volontariato di norma lo svolge chi se lo può permettere (ad esempio Luca Sofri?), cioè chi ne ha il tempo ed ha, prima, anche la sicurezza economica per pagare bollette, mantenere la famiglia, saldare i conti. Insomma quelli ben pasciuti grazie ad alti stipendi garantiti dal sindacato, solidi avviamenti professionali, ricchi gettoni, comparsate varie, sponde di appartenenza e parentele ben assortite.
E’ invece altamente demagogico e professionalmente scorretto, oltre che stupido, far passare il messaggio che “si lavora anche gratis”, in virtù di un’idea “epico-militante” di giornalismo che alimenta falsi miti, pericolose illusioni e tutto il ricchissimo sistema che su questa perversa convinzione prospera. Sistema di cui il direttore Sofri è probabilmente parte integrante: vorrei infatti sapere sia se i suoi articoli sulle copiose e politicamente correttissime testate per le quali scrive sono scritti gratis, o se invece sono pagati (e quanto), sia se sono pagati gli articoli scritti dai collaboratori che il Post da lui diretto pubblica.
Quando il brillante demagogo ci avrà dimostrato carte alla mano di fare, anzi di aver sempre fatto, del volontariato giornalistico nel nome dell’alta missione affidatagli dalla “nobiltà” del mestiere e, al contempo, ci avrà dimostrato di pagare congruamente i venali, poco idealisti collaboratori, allora accetteremo di ascoltare – ma senza convincercene, sia chiaro – certe plateali scempiaggini per platee di bocca buona (e pancia piena).