Da non credere a Roma: dopo mesi di inerzia e col fiato del 12 agosto sul collo, l’Ordine nomina una commissione di saggi per fare entro il 9 luglio la proposta che, in sei mesi, il Consiglio Nazionale non è riuscito a plasmare. Ma il bello è che solo quattro membri su undici sono giornalisti professionisti. Nasce “l’ordine dei pubblicisti”? No, però…
A volte è bello, anzi bellissimo, e al tempo stesso tragico, scoprire di non essere soli a dire e pensare le stesse cose. A sostenere ad esempio che il giornalistificio ha trasformato l’ordine in un leviatano, dove una malintesa e patologica forza dei numeri rovescia la logica delle rappresentanze e dei “pesi” professionali, dando così nelle mani dei dilettanti le leve per decidere del destino dei professionisti. E a sostenere che il sostanziale, imbarazzato e imbarazzante immobilismo registrato nell’ultimo semestre dall’odg sulla riforma, come in una guerra di trincea tra blocchi e controblocchi di interesse, ma con scadenze improrogabili ormai alle porte, si sia trasformato in una pantomima forse limpida per chi ha il seggio a Roma, ma incomprensibile per tutti gli altri. Me compreso. Uno scenario non solo ridicolo (nonchè sintomatico dell’estrema debolezza della categoria), ma catastrofico.
Del quale, pur essendo fuori dai giochi, avevo avvertito il fumus da tempo e avevo chiesto espressamente lumi (qui) in una lettera aperta rivolta al presidente Iacopino, pubblicata su questo blog tre settimane fa ma inopinatamente rimasta senza risposta.
Poi, poco prima dell’inizio di Italia-Inghilterra, apro il sito di Franco Abruzzo e ci trovo una missiva di Gianni De Felice (qui) che mi lascia senza parole.
Il titolo è “Nasce l’Ordine dei pubblicisti“. Il contenuto è quello sintetizzato nel sommario di questo post.
Non so se quanto riporta De Felice sia tutto vero. Spero di no, ma non ho nemmeno motivi per cui dovrei giudicarlo falso. Certamente è verosimile. Realistico, direi.
E apre uno squarcio su un quadro finora, più o meno omertosamente, mantenuto nel silenzio dell’irritualità, in una forma di sabotaggio regolamentare e rappresentativo che lascia sbigottiti.
Confido ardentemente non solo che arrivi una smentita ufficiale, ma che davvero quanto raccontato sia fantasia. O un brutto sogno. O un colpo di sole provocato da Scipione l’Africano (altro che il ciceroniano Somnium Scipionis – quello era l’Emiliano – sull’immortalità dell’anima: questa invece è surrealtà pura).
Chi mi legge sa che per me i giornalisti si dividono in buoni e cattivi, a prescindere dall’elenco di appartenenza. Ma fingere che tra gli 80mila pubblicisti, anzi tra i più potentati tra loro, cioè quelli che da tempo immemorabile siedono in Consiglio Nazionale, non ce ne siano moltissimi che con la quotidianità della professione hanno poco o nulla a che fare, è inconcepibile. Affidare a costoro, i primi e più tenaci avversatori del cambiamento che, vitale per la categoria, toglierebbe loro il balocco di mano e il distintivo dalla giacca, mi pare invece inaccettabile.
E credo che i pubblicisti per primi, siano essi, sindacalmente parlando, collaboratori o professionali, dovrebbero rifiutare l’esercizio di una logica di potere che, se la via indicata da De Felice è veritiera, porterà tutti al baratro.
Qui non si tratta più neppure di deontologia, di Carta di Firenze (a proposito, che c’entra? Perchè De felice la evoca?) o di altro. Il nostro lavoro si divide tra chi lo fa in via esclusiva e chi in via accessoria:pari dignità, ma figure diverse.
Che sia affidato ai secondi il futuro dei primi come lo definite?
Perchè De Felice ha ragione: ferma l’uguaglianza di diritti e doveri per tutti i giornalisti, è inammissibile che avvocati, geometri e commercialisti decidano il futuro e le regole di chi, il lavoro di giornalista, lo fa di mestiere.