Mentre, sotto il cielo plumbeo, nel fu dorato shopping mile di fondovalle si consuma stancamente il rito degli acquisti ad ogni costo, quasi per caso mi addentro nella Vallaccia, valle laterale della già periferica Trepalle, scomoda frazione livignasca. La strada diventa presto un sentiero. Una dozzina di baite tutte al di sopra della “quota del larice”, nessuna anima viva. Ad eccezione di uno strano jogger sulla sessantina, vestito di soli pantaloncini e canottiera nonostante il clima, che scompare presto all’orizzonte, verso i ghiacciai, diretto chissà dove. E dà la sensazione di non tornare più.
Se è vero che, come si usa dire, in montagna l’atmosfera autunnale è malinconica, allora quella che spesso si respira a Livigno ad agosto inoltrato, quando l’estate sembra ciò che resta di un ghiacciaio eroso dal riscaldamento globale, oppure un esercito in ritirata che si lascia alle spalle sparute colonne di feriti e di mezzi cigolanti, è letteralmente livida. Non ci fosse il fruscio incessante e un po’ fastidioso delle auto dei gitanti, che senza requie fanno il pendolo tra l’Italia è quest’enclave extradoganale con il miraggio degli acquisti di giornata, nei giorni di pioggia il paese acquisirebbe presto le sembianze – ora indolenti e ora grigie – delle località turistiche a fine stagione.
Ma Livigno, l’abbiamo già scritto, non è un paese normale.
Non lo è per via dell’altitudine, che ti proietta subito talmente in quota da toglierti, se non ci fai attenzione, anche la soddisfazione di contemplare, via via che sali, i mutamenti della flora e del clima. Due passi e sei subito su, oltre la linea dei larici e ben presto oltre quella dei cespugli, dove in breve perfino il verde dei pascoli si rivela per quello che è: un sottile tappeto di terra e d’erba appoggiato sulle rocce sbriciolate da millenni di gelo. E dal quale, sovente, le montagne che puntano ai tremila non fanno in tempo ad elevarsi in picchi verticali ma cabrano dolcemente, restando non di rado tondeggianti. Solo le vette più alte, violacee e punteggiate di nevai o rari ghiacciai, spuntano crudamente dalla brughiera, quasi squarciandola, come i molari o i canini da un’enorme gengiva di pietra.
Vista la conformazione del paese, anche per i più refrattari allo struscio a Livigno non è facile sottrarsi al rito un po’ tedioso del passeggio pomeridiano, quando il tempo scorre lento, la pigrizia incombe, la nuvolaglia bassa e qualche goccia di pioggia scoraggiano ogni velleità di escursione.
Proprio per questo l’altroieri, dopo pranzo, ho preso la macchina e sono andato a Trepalle, 2.100 metri sopra il livello del mare, la frazione che sta oltre il Passo d’Eira, tra il capoluogo e la barriera doganale del Foscagno. E’ la sede parrocchiale più alta d’Europa e il luogo più freddo d’Italia (il record è -46°, nell’inverno del 1956). Una volta, più che una borgata vera e propria, era una manciata di povere baite spargole, tenute insieme dalle stringenti necessità materiali e da vincoli di parentela destinati spesso a trasformarsi in una gabbia o in un inferno di faide interminabili. Oggi le case, grazie al turismo di passaggio e alla seggiovia che unisce questo versante della montagna al comprensorio sciistico livignasco, sono diventate qualcuna in più, ma la sensazione di estrema sobrietà e di lontana periferia non è certo venuta meno.
La prima domanda che qui tutti si fanno è quella sul significato del nome. Interpretazioni pecorecce a parte (le preferite dei turisti, va da sé), sembra che nessuno, neppure certi pur dottissimi e interessantissimi volumi pubblicati sulla storia della valle, riesca a dare una risposta attendibile. Curioso destino, quello di Trepalle: sebbene amministrativamente sia oggi una frazione di Livigno, da sempre è considerata dai livignaschi estranea alla cultura propria della valle e meglio apparentata, parola degli stessi abitanti, a quella della Valdidentro, il lungo impluvio che, in trenta km di (una volta terribile) statale, porta fino a Bormio.
Ieri dunque, dicevo, sono andato a Trepalle. Poi sono disceso fino a dopo l’abitato e, prima che la strada ricominciasse a salire verso il passo del Foscagno, mi sono fermato all’imbocco della Vallaccia. E’ una valle remota, lunga e stretta che, partendo da quota 2.000, scorre verso sud, in parallelo a quella di Livigno. Una valle di alta montagna, insomma, che da sciatore sono abituato a contemplare d’inverno dalla sommità delle piste, coperta dal maestoso e intonso biancore delle sue nevi. Nevi vergini, rese tali dal rischio di valanghe e dall’ostinata quanto encomiabile resistenza di chi, per ora almeno, si rifiuta di consentirvi l’estensione della ski area.
Proprio dentro la valle, invece, non c’ero mai stato. Sia perché l’inverno, per le ragioni dette, l’accesso è impossibile, sia perché, d’estate, quell’imbocco improvviso, quasi nascosto dalla curva di un tunnel, è uno di quelli destinati ad essere notati solo dopo esserci passati davanti, con la testa rivolta ormai alla prosecuzione del viaggio.
Stavolta invece mi ci sono fermato apposta. Ho parcheggiato nella piccola piazzola di sosta, ovviamente deserta, e a piedi mi sono incamminato sulla stradina in lieve salita. Ben asfaltata e attrezzata, ho subito pensato tra me, ottima per le escursioni. E già prevedevo di incontrare nordic walkers e mountain bikers. Ma mi sbagliavo. Perché dietro la prima curva è cominciato un altro mondo. Talmente “altro” che, al confronto, perfino la ruvida Trepalle e la montanara (nonostante la patina di consumismo) Livigno sono apparsi di colpo luoghi avvitati su se stessi, ammalati di civiltà e di urbanizzazione, affollati, rumorosi, intricati, complessi. Nella sua disarmante semplicità, priva di qualsiasi deriva cartolinesca, la Vallaccia mi si è aperta di fronte, coi ripidi fianchi erbosi sfalciati da poco e già velati di giallastro, i mille ruscelli, il torrente e la strada tortuosa che lo accompagna, assecondandolo a mezza costa. Qua e là qualche baita, anch’essa senza alcuna velleità di pittoresco, senza stucchevoli gerani sui balconi anzi sbilenchi, asciutta, talvolta munita di un’edicola molto devozionale e niente affatto ornamentale, con rari, velleitari, malconci orticelli recintati di legno come certi piccoli cimiteri (tanto da far venire il dubbio che, in effetti, lo siano davvero) dei film western, dove, vista la quota e il clima, appare del resto del tutto improbabile che possa crescere qualche verdura. E quindi restano lì a sottolineare la generale malinconia e lo stile di vita di un tempo che fu. Una berlina è in sosta, sorpresa!, davanti a una casetta senza pretese ma non c’è traccia del proprietario. Silenzio assoluto. Né uomini, né cani in vista. Solo qualche paciosa mucca e il suono dei ruscelletti. Sebbene non manchino i segni di vita (un trattore, un carrello per il fieno, un tavolo all’aperto, una panca), qui tutto sembra essersi già spento, addormentato, sebbene siano solo le tre del pomeriggio. Sulle facciate opache di case e stalle brillano, un po’ stonate, le moderne targhette dei numeri civici. Brusco segnale del fatto che anche qui, apparentemente fuori dal mondo, possono incombere l’anagrafe, la burocrazia, il catasto, i vigili urbani. Lo sai che è ovvio, ma ti chiedi come sia possibile.
La salita prosegue. Davanti mi si parano un paio di cime spigolose a cui cerco di dare un nome ripercorrendo, a mente, una mappa contemplata mille volte e mai mandata a memoria. Mi oriento credendo di intravedere sulla destra il traliccio sommitale di una seggiovia, familiare agli sciatori. La sensazione di isolamento è totale, la distanza da tutto il resto sembra incolmabile. E’ forse questo – penso – il vero piccolo Tibet a cui si abbevera la pubblicità dell’Apt locale?
Mentre, preso da questi ragionamenti, mi guardo intorno, dal silenzio mi spunta alle spalle un tipo che corre. Siamo in una salita piuttosto ripida, ma lui corre. Ha il passo pesante, il fiato corto, un fisico non proprio da atleta. Ma comunque, corre. Avrà una sessantina d’anni, un corpo massiccio, pantaloncini corti e canottiera di un improbabile colore arancione. Polpacci possenti. E corre. Prima che il mio sbigottimento si dissolva, il misterioso atleta è già sparito dietro la prima curva. Riaffiorerà solo a intervalli, sempre più lontano e sempre più improbabile, lungo quella via che poi diventa sentiero, si spinge aldilà di tutte le baite, perfino oltre l’ultima malga, dove la valle comincia a salire ripidamente e a biforcarsi tra lingue di ciottoli e sopravvissute chiazze d’erba. Più in alto restano solo i ghiaioni, le creste di roccia e il ghiacciaio. Eppure lui non si ferma.
Giro i tacchi e torno indietro, sforzandomi di notare i dettagli del paesaggio che mi fossero sfuggiti. Ma tutto è uguale. Le solite poche baite di prima, con qualche imposta aperta ma nessuna luce accesa all’interno, le tante fontanelle di legno traboccanti d’acqua. Da una casetta spunta un signore in Lacoste che saluta cortesemente e scompare nel buio di un seminterrato.
Da un momento all’altro, penso, l’escursionista in canottiera dovrebbe raggiungermi, sarà ormai da tempo sulla via del ritorno. Aspetto che sbuchi ancora dal nulla e mi superi di nuovo, come un’ora fa. Ma per quanto il mio passo sia lento, quasi d’attesa, rimaniamo soli. Nessun passo alle spalle, nessun ansimare. L’auto ci aspetta solitaria al parcheggio. Cade qualche goccia di pioggia e il cielo non ha cessato un attimo di essere grigio. Per scrupolo controllo sulla grande mappa turistica affissa all’imbocco della valle se ci siano altri rifugi o baite sfuggiteci alla vista, o scorciatoie, o ripari dove il jogger poteva essere diretto, o alloggiare, o addirittura abitare. Ma non risulta niente. Oltre il punto in cui l’ho scorto per l’ultima volta, divenuto ormai una minuscola macchia arancione, non c’è nulla. Solo un bivio, in cui il sentiero si sdoppia per salire sulla vetta di due montagne. Roba da alpinisti, non certo da runner solitari e vecchiotti sul far della sera.
Mi ritrovo al volante sulla statale che da Trepalle porta al Passo d’Eira. Regolari come un metronomo, le auto dei vacanzieri provenienti dal Foscagno si sgranano lungo la salita, facendo gemere il cambio. Siamo appena a Trebilie eppure sembra già un ritorno alla realtà. Oltre il valico si apre la valle di Livigno. I cartelloni pubblicitari e le insegne di ristoranti e negozi ora sembrano schiaffi, il paese laggiù in fondo somiglia a una città.
Del corridore solitario in canottiera arancione, neanche l’ombra.