Un italiano consuma in media 15 kg di zucchero all’anno. Che, al prezzo di 0,9 euro al kg, fanno 13,5 euro. Un’inezia. Eppure non passa giorno che nella (già) remota area extradoganale di Livigno, in Valtellina, frotte di turisti mordi e fuggi arrivino al mattino per acquistare pacchi da 12 kg di zucchero a 0,6 euro al kg. Dopodichè risalgono in auto e si sciroppano centinaia km fino a casa, convinti di aver “risparmiato”. Fenomenologia alpina dello shopping compulsivo e della sindrome da centro commerciale vacanziero.
Vabbè che a Livigno, già remota località turistica in area extradoganale dell’alta Valtellina, la benzina costa la metà e quindi il lungo viaggio per raggiungerla si ammortizza da solo, facendo il pieno prima di ripartire. E vabbene che si risparmia l’iva su tutte le merci, abbigliamento compreso (ammesso che poi, alla fine, il prezzo sia davvero inferiore a quello che, in città, si paga in certe grandi catene commerciali). Ma a tutto dovrebbe esserci un limite, consumismo compreso. Un limite che invece, in questo “piccolo Tibet” una volta famoso per restare isolato dalle nevi sette mesi all’anno, pare dissolversi esattamente come l’ossigeno dei suoi oltre 1800 metri di quota. Per trasformarsi in una generalizzata, irrazionale euforia da shopping compulsivo.
Un tempo, almeno su certe merci, qui il risparmio era reale. E a questa già seducente motivazione si univa la prospettiva di una doppia, irresistibile libidine: da un lato, quella di poter acquistare a prezzi davvero convenienti prodotti altrimenti carissimi e spesso introvabili in Italia; e, dall’altro, quella di avere l’opportunità, grazie alla necessità di importarli, di beffare una tantum la dogana. Insomma, venire a fare acquisti a Livigno era non solo un modo per risparmiare, ma anche per sentirsi e dimostrare a se stessi di essere “furbi” al cospetto della rapacità del fisco. E tanto bastava a giustificare i disagi di una trasferta massacrante e ricca di insidie, tra strade ghiacciate, motori che gelavano, valanghe che cadevano, pacchetti di sigarette nascosti nelle tasche di noi bambini, bottiglie di whishy occultate dietro la ruota di scorta, eteree bugie sulla quantità e il valore della merce dichiarata in frontiera.
Poi, anche a Livigno, i tempi sono cambiati. Le strade sono state allargate e protette con gallerie, quindi niente più blocchi da slavina, catene in bagagliaio e gomme chiodate. Arrivare non è più un’avventura, solo un comodo viaggio da andata e ritorno in giornata. Con il turismo di massa, addio anche alle raffinate sigarette straniere, ai profumi d’elite, alla cioccolata da intenditori, ai distillati da gourmet, all’elettronica d’importazione, ad accendini ed orologi da collezione. Piano piano il lungo paese (18 km di case di legno messe quasi in fila per evitare il propagarsi degli incendi), noto anche per essere il comune più freddo d’Italia (viste con i miei occhi punte di -40°) e il più alto d’Europa con i suoi 1816 sul livello del mare (nonché con la parrocchia più alta del continente, quella della frazione di Trepalle a 2.100 metri: tanto fredda e isolata che ci mandarono al confino Giovannino Guareschi), si è trasformato vent’anni fa in una sorta di mega centro commerciale all’aperto con centinaia di negozi tutti uguali che vendono tutti gli stessi prodotti agli stessi prezzi, semideserto di notte ma perennemente intasato di giorno di auto incolonnate, preso d’assalto dai pendolari dello shopping.
Ma proprio qui arriva il bello. Perché, accecati dall’ansia tutta contraddittoria di lucrare il più possibile sul massimo del superfluo, su quale merce i forzati dell’extradoganale hanno inspiegabilmente concentrato le loro rapaci attenzioni? Sullo zucchero. Avete letto bene, sullo zucchero: quello bianco, che si mette a cucchiaini nel caffè. E’ vero, a Livigno costa il 30% il meno (0,60 contro 0,90 euro al kg). Ma quanto zucchero potrà mai consumare un cristiano per poter giustificare la frenesia da contrabbando che colpisce i turisti? Le statistiche dicono che un italiano medio utilizza in casa circa 15 kg di zucchero all’anno, pari a un valore commerciale di 13,5 euro. Se lo compra a Livigno lo paga 9 euro e quindi risparmia (in dodici mesi!) 4 euro e mezzo che, per una famiglia di quattro persone, fanno 18 euro. Vi pare una cifra sufficiente a giustificare prima la fatica di interminabili scarpinate (i parcheggi livignaschi sono rari e le distanze, vista la conformazione del paese, considerevoli), portando a spalla, come un manovale con i sacchi di cemento, confezioni da dodici kg di zucchero come invece fanno tutti, dal pensionato traballante al professionista in suv, dalla casalinga in tuta allo sportivo camuffato da Gimondi? E poi il tedio di sopportare, per qualche euro di saccarosio in meno, ore incolonnati in auto, nell’attesa di passare il controllo doganale?
Eppure, questo è ciò che succede quotidianamente. Si comincia alle 8 del mattino, con il serpentone delle famigliole in arrivo da Tirano, da Bormio, da Lecco, da Como e da Bergamo e si finisce nel tardo pomeriggio con il controserpentone. Nel mezzo ci sta il tempo per lo shopping compulsivo di zucchero e di qualche felpa in perenne liquidazione, il riempimento del serbatoio fino a farlo traboccare, un picnic improvvisato sui prati a ciglio strada con bresaola e pane affettato sul posto (sotto gli occhi irritati di baristi e ristoratori, peraltro maestri ad ammannire ai più prodighi menu turistici a base di polente posticce e pizzoccheri precotti). Il tutto concentrato nei 500 metri del centro mentre, appena fuori dall’ingorgato perimetro, i contadini continuano indifferenti a raccogliere il fieno, le mucche a pascolare e le marmotte a salutare col fischio il passaggio degli escursionisti.
Nel ’71, quando misi piede per la prima volta in paese, le cose erano ovviamente molto diverse. Un’era geologica fa. Eppure è buffo constatare come sotto a questa crosta consumista che a Livigno pare aver dopato tutto e tutti, regalando un benessere e una ricchezza impensabili fino alla scorsa generazione, rimanga saldissima una cultura locale quasi impermeabile ai “forestieri” e che la gente del posto non è per niente ansiosa nè di far conoscere, nè di far affiorare almeno affiorare. Non tutto è rose e fiori, sia chiaro. Ma questa è una storia che con lo shopping dello zucchero non c’entra nulla.