Davvero, come dice Gilles Fallowfield, per le “bollicine” del nostro paese “piccolo è bello“? Ha senso vagheggiare grandi espansioni e fronti comuni per prodotti di origine, tradizione, fatturati diversi? E davvero i piccoli numeri sono un limite? O essi dovrebbero costituire la base per l’elaborazione di nuove strategie fondate sulla circoscrizione dei mercati di sbocco e la profondità dell’offerta? Se n’è parlato, non senza qualche polemica, a “Bollicine su Trento”.
“Bollicine su Trento”, la rassegna dedicata allo spumante metodo classico trentino, è appena cominciata (durerà fino al 13 dicembre nello splendido Palazzo Roccabruna, sede dell’Enoteca Provinciale). E già si discute. Non solo di appuntamenti, degustazioni, abbinamenti (il programma è qui).
Ma anche di numeri (il Trentodoc “tira” 8 milioni di bottiglie per un fatturato di 70 milioni di euro, il Franciacorta 9,5 milioni di bottiglie per 140 milioni di fatturato, lo Champagne 293 milioni di bottiglie per 3,7 miliardi di euro) e di rapporti tra numeri (le bollicine trentine e lombarde sono separate da appena 1,5 milioni di pezzi, ma il fatturato delle prime è metà di quello delle seconde), di percentuali (+21% l’export del prodotto nazionale all’estero dei primi 8 mesi del 2010 e +15% per lo specifico trentino) e di strategie di mercato.
Fa discutere, il particolare, l’ipotesi rilanciata in un’intervista a Winenews (qui) da Fausto Peratoner, presidente del Trentodoc e direttore di Cesarini Sforza, di un possibile approdo alla “garantita”: “Il marchio Trentodoc ha aumentato la propria notorietà e il proprio peso in tutti i canali distributivi. Un elemento questo che ha stimolato l’idea di passare a Docg, rivisitando il disciplinare di produzione e dando, così, un segnale preciso della nostra ricerca sempre dell’eccellenza”.
Sul punto dice la sua (qui), sul neoblog “Lemilleblolleblog”, un acuto e polemico osservatore come l’amico Franco Ziliani. Personalmente mi limito a rilevare il tutto, come più volte in passato, quale ennesimo sintomo dell’avvenuta, patologica trasmutazione del concetto di doc/docg, e dell’uso del relativo bollino, da certificazione di qualità a semplice strumento di marketing.
Vorrei invece dire più approfonditamente la mia, reduce dal non vivacissimo convegno di venerdì pomeriggio (“Dialoghi sulle bollicine: evoluzione e tendenze di mercato”), su una questione apparentante secondaria. Ma sembrata niente affatto tale a chi era presente al dibattito, coordinato da Licia Granello di Repubblica e animato da Gilles Fallowfiels, Enzo Vizzari (direttore Guide L’Espresso) e Marco Sabellico (curatore Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso): per un prodotto commercialmente in buona salute (vedi sopra) e con numeri relativamente ridotti (idem) come il Trentodoc, ha senso parlare di grandi strategie di espansione, di penetrazione nei più grandi mercati, di approdi sulle piazze più esotiche? Se la denominazione vende già per intero i suoi 8 milioni di pezzi (equivalenti a poco più dei 6 milioni di bottiglie che costituiscono l’import italiano di Champagne), c’è davvero bisogno di enormi sforzi promozionali per espandere la domanda e raggiungere consumatori lontanissimi? Oppure è il caso di “curare” meglio gli sbocchi nazionali e quelli esteri più consolidati, di far radicare meglio il marchio, di fidelizzare il consumatore, anche tenuto conto del fatto che, in una prospettiva globale, il confronto non è tanto o solo tra “spumante italiano”, Champagne francese e Cava spagnolo, ma anche (soprattutto?) tra Trentodoc, Franciacorta, Oltrepo Pavese (per limitarsi agli spumanti a metodo classico e non estendere il discorso agli charmat)? Insomma se, dopo 150 anni, l’”Italia è fatta”, non è detto che sia fatto, né che si possa fare, lo “spumante italiano”. Allora tanto vale evitare le generalizzazioni, tenerci le differenti identità e fare di esse un punto di forza. “Name is not the magic solution for marketing troubles”, ha saggiamente ammonito Gilles Fallowfields.
Per lo spumante doc trentino, del resto, le potenzialità di uno sviluppo verticale, anzichè orizzontale, ci sarebbero tutte. Lo ha dimostrato l’interessantissima degustazione dedicata, venerdì mattina, a nove Trentodoc “introvabili”, ovvero ormai fuori commercio (Methius Riserva 2002, Methius; Riserva Cuvèe dell’Abate 2001, Abate Nero; Mach Riserva del Fondatore 2001, Fondazione Mach; Riserva 2000, Vetrari; Flavio Riserva 1998, Rotari; Millesimato 1996, Cesarini Sforza; Alterasi Graal 1995, Cavit; Riserva del Fondatore Giulio Ferrari 1994, Ferrari; Riserva 1992, Balter): acquisita la capacità dei produttori di dar vita anche a spumanti sorprendentemente longevi, forse sarebbe il caso di mettere a frutto quest’opportunità, invece di correre dietro ai numeri.