Sono stato relatore sul tema “sostenibilità” agli Stati generali dell’informazione turistica organizzati a Milano da Gist e Regione Lombardia. Ne esce un quadro più agro che dolce, su cui riflettere alla svelta.
Sono appena tornato da Milano, dove ero relatore al tavolo sulla sostenibilità in occasione della seconda edizione degli Stati generali dell’informazione turistica, organizzati (bene, va detto) dal GIST, Gruppo italiano stampa turistica, e da Regione Lombardia per fare il punto su questo discusso, delicato e scricchiolante settore del giornalismo.
Non sto a spendermi troppo sulle ragioni dei tre aggettivi: discusso perché ambiguo, trasversale e spesso troppo poco considerato (come in generale tutte le branche edonistiche, o tali percepite, della professione) rispetto al suo peso e le sue funzioni; delicato perché strategico in tema di orientamenti critici e dei consumi e quindi non di rado infiltrato da altri interessi; scricchiolante perché rappresenta forse la punta di diamante della crisi quasi irreversibile di un mestiere poco governato, nulla pagato, nulla considerato e nulla tutelato dai soliti noti.
L’appuntamento ha raccolto parecchi tra giornalisti, esperti e addetti ai lavori. Come sempre con i suoi pro ed i suoi contro: i secondi sono stati i frequenti vaniloqui di chi parla di ciò che non conosce e le tautologie dei circumlocutori di professione, i primi sono stati il confronto tra colleghi e con chi, occupandosi dello stesso tema ma da sponde opposte, offre all’altro punti di vista talvolta sottovalutati o addirittura ignorati. Il confine tra le due cose è ovviamente sottile e dipende dalla sensibilità di chi partecipa alle discussioni.
Il tutto si è concluso con un documento finale (rito inevitabile, lo so, ma al quale sono tendenzialmente allergico), che commenterò in seguito.
Ecco invece una serie di mie considerazioni.
Ciò che prima di tutto mi premeva di far emergere al tavolo coordinato da Ornella D’Alessio e Piergiorgio Oliveti, o almeno provarci, erano tre cose: il fatto che si parlasse anche di sostenibilità (economica e non) della professione nel settore, aprendo quindi dei focus sull’avvitamento ormai apparentemente inarrestabile di questo lavoro, più in generale che si evitasse di limitare il discorso a ciò che il 90% della gente intende quando si parla di sostenibilità, ossia solo quella ambientale, e infine che si provasse a mettere in discussione il concetto stesso di sostenibilità, che spesso è l’eufemismo utilizzato per nascondere il rifiuto di porre in dubbio il modello e di ipotizzare di mutarlo.
Sul primo versante, le mie idee erano che un giornalista anche specializzato in qualcosa (turismo o che altro) deve innanzitutto essere un giornalista, ossia saper fare questo mestiere, a prescindere dal ramo vero o presunto. Un mestiere che per definizione non può avere compartimenti stagni, è trasversale, multidisciplinare, intermetodologico e quindi richiede la sussistenza di quella capacità professionale che, in teoria, dovrebbe essere già stata dimostrata al momento di iscrizione all’albo ma, come sappiamo tutti perfettamente, non lo è quasi mai. Il turismo è una cosa complessa: saperlo leggere, spiegare, interpretare, valutare, raccontare da cronista (cioè senza l’uso della fantasia o di secondi fini) è altrettanto complesso. In parallelo ho sostenuto che, in questa branca ritenuta a torto “leggera”, bisogna a maggior ragione vigilare su deontologia, conflitti d’interesse, sovrapposizione di funzioni, trasparenza e consapevolezza da parte del giornalista del proprio ruolo all’interno del sistema-informazione. Presupposti indispensabili, ma spesso minati in partenza e ridotti a mere petizioni di principio da un sistema editoriale boccheggiante, da una vigilanza inesistente e da un’assenza di tutele sindacali tanto cronica quanto esiziale. Significativo, e al contempo grottesco, che proprio dagli addetti ai lavori dell’industria turistica siano giunti appelli alla stampa specializzata a fare, anche in questo settore, un “giornalismo di inchiesta” di cui in teoria tutti, e loro per primi, sentono il bisogno, ma che poi – questa la triste conclusione – nessuno è disposto né a commissionare, né tantomeno a pagare e quindi a pubblicare. Tu chiamalo, se vuoi, cortocircuito.
Il secondo versante della discussione si intersecava in più punti col primo: quanto rischio c’è che il parametro della “sostenibilità” di un prodotto o una destinazione turistica diventi uno slogan, un bollino, una certificazione burocratica, una leva di marketing da ostentare solo per fare della banale pubblicità? Come tutti i fenomeni di massa, il turismo è per definizione poco sostenibile e il fatto che alcuni settori o operatori di nicchia lo diventino (strumentalmente o meno) non toglie che esso per sua natura lo rimanga. Quindi i problemi da risolvere sono due: trovare la via per una sostenibilità effettiva e non formale del turismo, impresa a mio parere oltremodo ardua, e trovare un giornalismo capace di indagare su tutto ciò con profondità, terzietà e competenza. Nel mezzo, un articolato e mastodontico sistema di comunicazione (addetti stampa, pr, pubblicità, etc) che da un lato deve svolgere il mandato di agevolare la fioritura delle attività commerciali del committente, dall’altro è tenuto a mantenere nei binari della correttezza professionale (se gestito da giornalisti, sennò facendo ricorso al solo dovere morale del singolo) il proprio ruolo di intermediario tra i due mondi.
Passare dalle parole ai fatti sarà dura.
Per affrontare il tema sotteso al terzo versante non c’è stato tempo e forse è stato meglio così, vista la complessità e la delicatezza dell’argomento.
Nel corso del dibattito, tra i punti di massimo dissenso da parte mia, devo ammetterlo, ho poi riscontrato l’esposizione da parte di varie voci di una serie di singolari teorie, secondo le quali: a) la stampa di settore dovrebbe essere il megafono promozionale dell’industria turistica nazionale; b) giornalisti e influencer sono figure analoghe che dovrebbero avvicinarsi, magari condividendo in parte un codice deontologico; c) dovremmo (dovremmo chi? Con quale autorità?) indurre gli influencer a dotarsi di un albo e di regole conseguenti alle quali, ovviamente, non credo affatto abbiano alcuna voglia di sottoporsi, non avendo essi alcun interesse, anche comprensibilmente, ad autoinfliggersi vincoli di sorta; d) stampa e propaganda sarebbero facce della stessa medaglia e quindi bisognosi di un inquadramento comune.
Io penso esattamente il contrario e l’ho detto: il giornalista fa informazione ed è pagato per questo da un editore, l’influencer è pagato da un committente per fargli reclame, siamo controparti e non figure affini, e nel settore del turismo (come in auto, moda, sport, salute, bellezza, enogastronomia, etc) tutti questi paletti è indispensabile restino ben saldi e vigilati, almeno finchè si vuole parlare di giornalismo specializzato e resti in piedi per tutti, nell’interesse collettivo, una parvenza di credibilità.