In Alta Fedeltà (notiziona!) è nata una nuova rubrica, questa. Siccome commentare i vini mi annoia, ma berli mi piace, abbinerò ogni bottiglia alla lettura con la quale l’ho (quasi mai apposta) accompagnata. Si parte coi Sorbara e i Grasparossa di Cleto Chiarli.
Mi piovono sul tavolino, quasi in contemporanea due pacchi.
Il primo contiene campioni di vino: Lambrusco (di Sorbara e Grasparossa, per la precisione) della casa modenese Cleto Chiarli (qui). Il secondo, libri: gli atti dei convegni dedicati anni fa a Giuseppe Giusti e – chicca – l’anastatica delle”Osservazioni” di Pellegrino Artusi “a trenta lettere” del Giusti medesimo. Frutto della meritoria iniziativa della RM Print Editore di Firenze, non nuova (qui) a operazioni simili.
Poteva, un artusiano come me, esimersi dal compulsare le due cose?
Ovviamente no.
Quindi prendo libro, bocce e bicchiere e mi avvio in poltrona.
Stappo il Vecchia Modena Premium, Lambrusco di Sorbara doc 2012. Colore pallido e subito gran botta di profumi, il piacevole sfrigolare di una spuma fitta e intensa che punge il naso prima di lasciar passare il resto. Mi siedo e, senza ancora sorseggiare, apro profeticamente il volume a caso: pagina 36, commento alla V lettera: “Benedetta la rusticana semplicità!“, scrive l’Artusi in calce al testo che, dice, “descrive, con tanto brio, una villereccia festa da ballo“. “Villereccia“: fantastico, penso. Il Giusti però fa anche meglio, perchè mette in bocca al padrone di casa questa falsomodesta descrizione del ricevimento: “Siamo qui tra noi, sanfassòn. Du’ violini, du’ bruciatine, un bicchieretto. Ma eh, che ragazzotte!“.
Afferro il bicchiere e prendo il primo sorso. Quasi a sorpresa, un po’ perchè distratto e un po’ perchè mi aspettavo altro, mi coglie un gusto secco, quasi spinoso, croccante perfino. Ribevo e provo la stessa sensazione di eleganza quasi inamidata. Me ne compiaccio, piluccando fette di un salamino ben stagionato e mi rituffo nella storia del ballo. “Non ho mai capito a che valga la presentazione nei balli“, insiste l’Artusi alludendo alle mordaci parole del Giusti su certe stucchevoli moine messe in scena in quel salone “capace di sei quadriglie” e dove alla fine l’anfitrione non sa più come allontanare da casa gli ospiti tiratardi, pentendosi di “aver fatto rinculare l’oriolo della sala“. Esilarante.
Sera successiva, il lambrusco “Del Fondatore”, Sorbara doc del 2012, fermentato in bottiglia. Colore sempre tenue, ma più carico del precedente. Mussa fresco nel bicchiere, sbrigativo, rilasciando un profumo secco e vagamente floreale, molto invitante. Metto da parte il bicchiere e apro il libro, sempre a caso. Lettera XXI del 30 maggio 1842: “Si dimostra – la introduce l’Artusi – come più dei libri giovi la compagnia degli uomini“. Per scacciare il pensiero che, mentre leggo, le mie uniche (e per fortuna solo temporanee compagnie) sono il vino e appunto il libro, avvicino il calice alle labbra. Gran bevuta: sobrio, spumeggiante anche in bocca ma composto, sapido senza inflessioni fastidiose. Lo ribevo. Il Giusti, di nuovo, non tradisce: “Io mi sento piovere addosso da tutte le parti la voglia di ritirarmi un po’ più in me stesso e non c’è prete nè frate che sia tanto invelenito contro gli spiriti dell’inferno come io contro questa nausea, che molti pigliano per un segno di maturità o di cosa simile. Io l’ho per segno di putrefazione, molto più che dal maturo al mézzo siamo uscio e bottega“. Per riprender fiato mi verso un altro bicchiere e lo trangugio, ma lentamente, per rifletterci su. Poi passo alle riflessioni dell’Artusi: “…Le cose udite fanno più impressione e restano più di quelle lette. La ragione di ciò, a quanto pare, si trova in questo: che le cose lette giungono quiete, talvolta annebbiate e sole sole per la via degli occhi direttamente al cervello, mentre le altre hanno in compagnia loro il suono della voce, la mimica del viso e dei gesti e, passando per l’udito, si dirigono in pari tempo al cervello e al cuore“. Esattamente la stessa differenza, penso, che c’è tra raccontare un vino o berselo.
Ormai incoraggiato, la sera dopo stappo l’ultimo lambrusco, il Vigneto Cialdini 2012, un cru Grasparossa di Castelvetro doc che promette subito bene per via del bel colore intenso, una schiumosità rassicurante e di un profumo ampio, screziato, caratteristico, molto profondo, anticipatore di una prevedibile corposità. Riusciranno i passi artusiani e giustiani a combinarsi con tutto questo?
Proviamo. Pagina 134, lettera XXIV. “Di questa si ristampa solo quella parte – avverte l’Artusi – nella quale si ragiona, scherzando, del metodo d’insegnare l’agricoltura e dell’usare inopportunamente voci scientifiche“. L’argomento mi appassiona e lo celebro con un paio di potenti sorsate, sufficienti a farmi apprezzare il grande e avvolgente corpo del vino e una bocca sapidissima, godibile, quasi ridondante nella sua asciuttezza austera, perfino severa. Ottimo.
Al pari di un Giusti particolarmente appuntito nel commentare la lezione di un professorone: “Si può dire che alzasse al cielo di Platone tutta intera l’agricoltura, dalla cipolla all’ananasso“, esordisce. Ma “…son lezioni che anderebbero fatte un po’ più alla casalinga, da poter essere frequentate anche da un possidentucolo. Ma se il possidentucolo udirà il degnissimo professore che tira a mettere … il termometro nel campo dei fagioli, pianterà lì capra e cavoli dopo le prime parole“. Già, i cavoli: “…così insegnerò all’ortolano che i cavoli hanno un cono aereo e uno sotterraneo, che fino a qui, nella nostra profonda ignoranza, che non badava a altro che al sapore, si chiamavano foglie e barbe: vedete che nomi poveri!“. Alla possibile accusa di reato di lesa maestà verso la scienza agraria cerca di porre rimedio il fedele Artusi, che commenta il passo così: “Egli (il Giusti cioè, ndr) ha invece voluto colpire quell’apparato pomposo di che alcuni compiacciano di circondarla e specialmente l’uso e l’abuso di una complicata nomenclatura“.
Lettura terminata, vini scolati, godimento assicurato.
Di chi sia stato il merito, lo giudichi il lettore.
PS: a scanso di equivoci, si sappia che i commenti artusiani all’epistolario del Giusti non hanno nulla di gastronomico, ma sono di carattere squisitamente morale.