Sapete quando gli attori disoccupati dicono che il loro telefono “è muto”? Il mio invece squilla anche d’agosto. Mi chiamano però per lavori da cui loro hanno tutto da guadagnare e io tutto da perdere. Come se i freelance fossero vacanzieri cronici.

 

Mi ha scritto a sorpresa, in pieno agosto (visto il seguito, mi chiedo se per fingere di essere davvero al lavoro o se perchè non aveva di meglio da fare che cercare me), il direttore di una prestigiosa testata: voleva propormi una collaborazione.

Vista l’aria che tira avrei dovuto esserne lusingato. Anzi, ingolosito.

Invece no. Ero diffidente e ne avevo ben donde.

Sentiamoci, gli rispondo.

Lui mi chiama subito e la prende comprensibilmente, anzi giustamente, alla larga. Ma io capisco all’istante l’antifona.

Come previsto, l’antifona è infatti la seguente: premesso che ti stimo da sempre, ti seguo, leggo i tuoi pezzi e i tuoi post, conosco il tuo vissuto professionale, sei una firma importante, sei brillante, sei esperto, sei affidabile, per noi sarebbe un onore averti dei nostri eccetera eccetera, stiamo cercando di elevare il livello dei collaboratori e ne cerchiamo come te, cioè validi nonchè capaci anche di darci belle idee, oltre che di aiutarci a realizzarle.

Grazie, dico io. Conosco il tuo giornale e l’opportunità è interessante. Sono disponibile ma, in sostanza, che ti serve?

Lui: per cominciare dovresti farci una serie di proposte a largo raggio, almeno una decina però, spiegando anche come intenderesti realizzarle e coprirle. Noi le guardiamo e, se ci interessano, ti commissioniamo gli articoli.

Io, già sulla difensiva: coprirle in che senso?

E lui: beh, dovresti prendere contatti con enti, istituzioni, organizzazioni, possibili sponsor, gente che ci aiuta a ammortizzare le spese.

Guarda, gli dico appena un po’ seccato, se si tratta di dare indicazioni di eventuali contatti già in mio possesso da passare a chi in redazione organizza i servizi, sempre se capita e senza alcun impegno in tal senso da parte mia, ve le fornisco volentieri e poi fate vobis. Certamente, però, non posso nè voglio accollarmi la “produzione” delle committenze e tanto meno la messa a punto economico-finanziaria di eventuali viaggi o missioni.

Cioè?, mi fa lui  smarrito.

Beh, prima di tutto, rispondo, a me come giornalista sai bene che non è lecito mercanteggiare su scambi merce, gratuità e cose simili, attività che peraltro non mi si confanno per niente nemmeno sul piano caratteriale e non ho mai praticato, quindi non ho certo intenzione di cominciare ora. Sul piano logistico e organizzativo, invece, farsi onere della pianificazione e preparazione di un servizio è una cosa laboriosa, complessa e costosa. Come freelance sono abituato a farlo, ma è un lavoro ulteriore che mi deve essere compensato a parte.

Non ho capito bene, farfuglia.

E’ semplice, replico: se mi proponi un compenso per un lavoro che richiede tre giorni di tempo per essere realizzato, ma anche cinque per essere organizzato, significa che io lavoro per otto giorni, cioè tre per me e cinque per qualcun altro della redazione che dovrebbe fare quello che faccio io. In altre parole, devo spalmare su otto giorni di lavoro un compenso pensato per tre e dubito che mi convenga, quando addirittura non si trasformi in una perdita. E io di questo mestiere ci campo, non è un hobby.

Ah…, lo sento brancolare dall’altra parte del filo già con parecchia inquietudine.

Comunque, proseguo facendo finta di nulla, di tutto si può parlare, in fondo è sempre una questione di quantum.

Sì certo, dice lui un po’ sollevato. Avevamo pensato a centocinquanta euro.

Io: centocinquanta euro? A pezzo? Per tre giorni di lavoro in missione fuori sede, più il resto da fare a casa?

Lui (ormai imbarazzato): ehm….

Io, imperterrito: …e in più col rischio che il tempo impiegato a fare ricerche e a mettere a punto le dieci proposte vada sprecato, qualora nessuna o troppo poche delle proposte fatte vengano accolte? Ti rendi conto, vero, che non è accettabile?

Lui (dopo una pausa): in effetti capisco le tue ragioni ma cerca di capire le mie, abbiamo un budget all’osso.

Io: certo che le capisco. E so che capisci me. So pure che sai che non ce l’ho certo con te, in fondo hai solo il torto di offrirmi un lavoro, cosa di cui ti ringrazio. Però sai anche, e se non lo sai è bene che te ne renda conto, di essere il terminale di un sistema economico-editoriale ormai cronicamente deficitario, che non può sopravvivere all’infinito sulla gratuità sostanziale delle prestazioni dei professionisti a cui si rivolge e a cui chiede qualità, professionalità, affidabilità. Perchè io sono un libero professionista, di nome e di fatto, e sto in un mercato in cui devo sopravvivere.

Lui: che vuoi che ti dica…è vero!

Io: allora non dirmi niente, mi basta che non ti offenda se ti ho parlato con franchezza e anzi che apprezzi la mia correttezza nella quale, credimi, non c’è niente di tracontate, o di superbo, di arrogante o di ostile nei tuoi confronti, ma esprime solo concretezza, parecchio disagio e verità di fronte a domande e offerte sempre più inconciliabili.

Lui: hai ragione.

Io: allora facciamo che ti mando un paio di proposte già pronte, ma solo per amicizia e senza impegno reciproco, e tu fammi sapere se possono interessare.

Lui: ok, grazie.

Ed ora, se son rose, fioriranno. Ma senza regali o lavoro sprecato.