L’informazione è fatta (anche) di relazioni e di ruoli. Le prime si coltivano e i secondi si rispettano, con quel po’ d’ipocrisia che è parte del mestiere. Quindi a ognuno il suo compito, purchè svolto con perizia e correttezza.
L’ultima: mi reimbatto in un ufficio stampa da cui non ricevo notizie da secoli, loro giurano di tenermi aggiornato. Dopo un po’ il giornale mi gira il comunicato appena lanciato da quell’ufficio stampa sul tema che sto trattando. Comunicato di cui, ovvio, ero all’oscuro. Morale: io ci passo per fesso, loro per svampiti (eufemismo).
Anche la penultima è recente. Parlo con un altro ufficio stampa, che con tono di sufficienza mi rassicura: “tanto abbiamo rapporti diretti con la testata“, come a dire che tu non conti un tubo e il giornale pubblica quello che vogliamo noi in quanto amici del capo. Magari è vero ma, morale: ne riparliamo quando verrete a implorare due righe a pagina novantasei sulle vostre solite pseudonotizie marchettose.
Terz’ultima: ricevo 6 (sei) comunicati identici dallo stesso mittente, di contenuto risibile e pesanti come un frigorifero pieno. Con cortesia chiedo di verificare la mailing per beneficiare di un unico invio. Riscontri, zero. Dopo due giorni, riecco il comunicato sestuplo. Risultato: inserimento in spam-lista nera e adieu.
Quart’ultima: contatto l’ufficio stampa di un importantissimo ente pubblico su un tema di delicata, diciamo pure pulsante attualità. Ma siccome la mia domanda è impertinente (o io forse chiamo per una testata poco “amica”), la richiesta langue da giorni senza risposta.
Eppure la colpa non è tutta loro, cioè degli esecutori.
Il problema è la mostruosa accelerazione che, a tutti i livelli e in ogni settore, la comunicazione ha subito per effetto della convergenza tra le tecnologie (internet, telefonia, messaggistica, etc), roba diventata ingestibile non solo per l’utente finale, cioè il giornalista, ma anche e soprattutto per chi le notizie ha bisogno di produrle e divulgarle. Così gli addetti vanno in confusione.
Oggi chiunque, anche la più microscopica azienda o il più trascurabile politico, si sono dotati di un hardware con una capacità di fuoco mediatico che neanche la Fiat e coltivano sproporzionate, spesso ridicole pretese di capillarità. E’ come avere cento telecamere ma due occhi soli per guardarle: impossibile tenerle sotto controllo. In più c’è il parossismo dei social (a riprova che ormai si vede l’informazione come una branca secondaria della propaganda).
Il risultato è catastrofico: l’investimento rimane improduttivo e l’appesantimento operativo produce i rinculi e i danni d’immagine di cui sopra.
Ultimo esempio.
Ricevo un comunicato interessante, chiedo un approfondimento ed è di nuovo autogol: mi dicono “sul sito c’è tutto“. Mica vero, sennò non mi facevo vivo. Riscrivo. La risposta è sconcertante: “Preferiremmo non dettagliare il punto che le interessa“. Come? Penso a una questione personale e due colleghi tentano al posto mio: macchè, rimbalzati pure loro.
Cari giornalisti e comunicatori, l’informazione è fatta anche di relazioni e di ruoli. Le prime vanno coltivate, i secondi rispettati. Un pizzico di ipocrisia fa parte del mestiere e della natura umana. Ma quando si esonda, non ne viene nulla di buono. Rassegnatevi, con buona pace delle fanfaluche che insegna la cosiddetta “scienza della comunicazione” e di certe furbizie da due soldi.
Si potrebbe tranquillamente stare su sponde opposte della barricata, ma nel rispetto della professionalità dell’altro. Invece non sempre succede. Ed è un peccato.