Ma è proprio vero che, come dicono, “la professione sta cambiando e bisogna adeguarsi, ormai informazione e comunicazione si confondono e i giornalisti dovrebbero poter fare liberamente le due cose“? Non credo affatto: è solo un problema di manico.

 

Non passa giorno che non mi scontri con qualche collega (e non) sul fatto che, come usano dire loro, “la professione sta cambiando e bisogna adeguarsi“.

Già io sono per carattere poco incline ad adeguarmi. Ma ciò che finora mi mandava letteralmente in bestia era il senso che i miei interlocutori davano al presunto cambiamento in atto: “Ormai – dicevano e continuano a dire – informazione e comunicazione si confondono, quindi i giornalisti dovrebbero poter fare liberamente le due cose“.

Il classico paradosso dell’arbitro-giocatore insomma, con buona e strumentale pace della distinzione tra notizie e reclame, tanto per giustificare qualsiasi infingimento nel nome del marketing o della propaganda, che pari sono.

Poi però ho cominciato a pormi la questione sul piano generazionale o, se vogliamo anagrafico, della professione.

La prima, un po’ istintiva e un po’ patetica anche se veritiera risposta è stata allora che, non essendoci più i buoni, severi maestri di una volta, abbiamo finito per crescere una generazione o due di giornalisti (naturalmente parlo in generale, con molte eccezioni per fortuna, ma il trend è quello) di bocca buona, cioè tendenzialmente portati a minimizzare, a non far caso all’opacità, ai confini poco netti fra situazioni, ai paletti per definizione rigorosi di quella che, con accezione sempre più commiseratoria, oggi si usa chiamare deontologia.

La seconda, ulteriormente sconfortante, è stata un’altra: per effetto della doppia generazione di cui sopra, non solo non ci sono più i vecchi cari maestri, ma al posto loro, a insegnare alle nuove leve, è arrivata la prima ondata di vecchi alunni cresciuti senza maestri. Con risultati palesemente esiziali.

La terza considerazione mi ha condotto però ancora più a fondo. E, temo, alla radice del problema. Questa: prima ancora che la mancanza dei maestri, e quindi di una scuola, è venuto a mancare il filtro per l’ammissione alla scuola medesima. Cioè, fuori metafora, quel sistema selettivo – a volte, lo ammetto, brutale, a volte nonnistico, a volte bullistico addirittura – che dissuadeva chi non era più che vocato a proseguire sulla strada del giornalismo, prima che fosse troppo tardi. Ovvero lasciandogli il tempo di trovare altre strade, altri sbocchi professionali. Un sistema impietoso che però contribuiva a fare le spalle grosse e preservava da durature quanto catastrofiche illusioni. Compresa quella che i compromessi fossero inclusi nel prezzo e nella professione.

Ebbene, oggi quel mondo brusco ma solido è stato sostituito, non ho capito bene perchè (o forse sì: se ti pago poco e a volte nulla, e dalle istituzioni  – Fnsi e Odg – mi viene consentito di farlo, forse non è che poi posso pretendere più di tanto), da un dilagante buonismo, da una tolleranza, dalla chiusura di un occhio e a volte anche di uno e mezzo che, da eccezione, è diventato regola.

Oggi cioè si accede alla professione quasi senza sbarramenti, senza prima essere stati costretti a imparare o tantomeno a dimostrare di saper far niente, spesso galleggiando su un conflitto di interessi latente quando non esplicitamente dichiarato, sul gioco dell’ambiguità, sul vezzo della doppia veste: perciò se imparo, o credo, o mi viene fatto credere che il giornalismo è questo, per forza dopo che non ci trovo nulla di male a fare interviste compiacenti al politico per il quale faccio da ufficio stampa, a recensire bene i prodotti del mio committente e magari a stroncare quelli della concorrenza, a partecipare con gli occhioni spalancati e i superlativi nella penna agli eventi ai quali mi si invita non come testimone ma in vacanza-premio.

Il tutto senza malizia, ma anzi con genuina convinzione che sia giusto, perchè è “normale” e lo fanno tutti. Esattamente in quanto “la professione sta cambiando e bisogna adeguarsi, ormai  informazione e comunicazione si confondono, quindi i giornalisti dovrebbero poter fare liberamente le due cose”.

La chiamerei assuefazione alla marchetta.