In mostra ai Georgofili (e on line), da domani fino al 18/12, gli scatti della fototeca accademica dedicati al lavoro in campagna e al suo contorno tra la fine dell’800 e la metà del 900.

 

Se c’è un mondo avvertito dalla società contemporanea non solo remotamente lontano nel tempo, ma spesso ripudiato, rimosso, addirittura rinnegato dalla memoria collettiva come un passato da dimenticare il più in fretta possibile, questo è il mondo rurale. Quello da cui però, piaccia o meno, tutta l’Italia proviene e di cui, se non orgogliosi, gli italiani dovrebbero essere almeno consapevoli.

Invece no.

Deriva da questo, anzi da questa sorta di damnatio memoriae delle proprie radici rustiche, la monca italianità di oggi, che ha perduto – per essersene disfatta in quattro e quattr’otto come di un ciarpame di cui vergognarsi – un patrimonio di conoscenza e di abitudini radicate e a volte, ebbene sì, pure sane. E’ la stessa Italia (avete presenti le “Allettanti promesse” di Battisti?) che dal dopoguerra ha imparato a condire con l’olio di semi e oggi trova “troppo forte” il sapore dell’olio di oliva quello vero, che in campagna si annoia, che fugge al cospetto di un ranocchio e vorrebbe scorrazzare nei prati senza infangarsi le scarpe nè incontrare gli insetti, che non ha mai visto un pollo vivo e in compenso dà a un complesso beat il nome vagamente dileggiatorio de “I Cugini di Campagna“. Già, perchè chi era, negli anni ’60, che in campagna non aveva qualche cugino?

Retorica e ironia a parte, occorre intendersi: l’Italia rurale (aggettivo che preferisco assai allo stucchevole e abusato, oltre che fuorivante, “contadina“) di cento anni fa era tutt’altro che un’età dell’oro. Era infatti anche la roccaforte di una società a volte sordida, spesso arretrata, quasi sempre ignorante, nel senso che oggi diamo a quella parola. Non di rado un po’ gretta e di frequente brutale, almeno per la sensibilità odierna. Ma è esistita, lasciando tracce profonde. E nel suo oblio ha trascinato con sè un bagaglio culturale talmente lontano dal modo di pensare corrente da apparire quasi extraterrestre.

A quell’epopea, poco bucolica e molto georgica per dirla virgilianamente, l’Accademia dei Georgofili dedica una bella mostra, curata da Davide Fiorino e Daniele Vergari, che si inaugura domani nella sede accademica (Logge Uffizi Corti, aperta fino al 18 dicembre con ingresso libero, 9.00-12.30 e 15.00-18.00, ma visitabile anche on line, a cura del Museo Galileo, sulla Biblioteca digitale tematica a questo link): “Mondi dimenticati. I Georgofili e la fotografia. Testimonianze del lavoro in campagna tra la fine dell’800 e la metà del ‘900″.

Non bisogna pensare però solo a una bella rassegna di scatti seppiati su mucche, aratri, orti e covoni.

Lo scopo documentario della mostra, come il titolo suggerisce, va oltre e si apre alla vita domestica, alla scolarizzazione, alla didattica agraria, al lavoro organizzato, alle bonifiche, alle missioni all’estero e coinvolge – aspetto non secondario – una materia affascinante come la storia della fotografia (“una delle più giovani e simpatiche figlie della scienza“, come suggerisce l’aforisma di Paolo Mantegazza che apre il catalogo).

E ripropone in qualche modo il più vasto problema della conservazione, la catalogazione e la fruizione del nostro immenso patrimonio iconografico: sia quello afferente direttamente all’Accademia (nella quale sono confluiti nel tempo ingenti lasciti e fondi, con le responsabilità e gli oneri che ne conseguono), sia in generale quello della tutela dell’integrità fisica di un materiale dalla perdita del quale nemmeno la digitalizzazione può in assoluto salvaguardarci.