“Perché io valgo anche se mi paghi poco, tiè“, dice la collega Silvia Bencivelli. Valgo, ma non campo. Ecco perchè il nodo dei bassi compensi (e di chi li accetta!) è un problema di tutti i giornalisti. Del quale bisogna discutere alla “Carta di Firenze” del 7 e 8 ottobre.
E’ quello che, di sè, prima o poi pensano tutti: non sono pienamente apprezzato per il mio valore. Cosa talvolta anche vera.
Una sensazione ricorrente soprattutto in chi, mettendo nel proprio lavoro particolare passione oppure ricevendone poche gratificazioni, si trova spesso anche ad averne un modesto riconoscimento economico.
Lo spiacevole effetto si moltiplica in progressione geometrica nei liberi professionisti, i cosiddetti freelance. In particolare fra quelle categorie in cui il corrispettivo della prestazione lavorativa è raramente il frutto di una effettiva contrattazione tra le parti, ma è prefissato, a monte. E sovente a prescindere dalla qualità della prestazione stessa. In sostanza, due-soldi-due sempre riducibili unilateramente a uno e mezzo e senza stare a distinguere tra prodotti ottimi e prodotti mediocri.
Nei giornalisti la sindrome è frequentissima. Non tanto per il fatto (parimenti diffuso) che uno si senta un Montanelli incompreso, ma proprio per pedestri questioni di soldi. In sintesi: non mi pagano abbastanza. Cosa che produce una duplice frustrazione, cioè la perdita di autostima e parecchio mal di fegato nei confronti di chi, al cospetto di stipendio certo e ferie pagate, fa a malapena il suo dovere, se va bene.
A questo tema, giorni fa, sul suo blog (qui) la collega Silvia Bencivelli ha dedicato un lucido e spiritoso post intitolato “Perché io valgo anche se mi paghi poco, tiè“.
Nel pezzo, la Bencivelli si pone il problema del valore del lavoro e del fatto che questo tema, effettivamente un po’ pedestre ma vitale per chi campa di libera professione (come lei e come me) venga spesso, quando è sollevato, giudicato un inelegante argomento di conversazione e velatamente snobbato da chi, come detto sopra, il 27 di ogni mese riscuote e in vacanza ci va a spese del datore.
E aggiunge: siccome il destinatario e giudice della qualità del mio lavoro è alla fine dei conti il lettore, che ne sa lui di come ho realmente svolto il mio compito? Se bene o male, con coscienza o meno, scegliendo la via più rigorosa o quella più comoda? E poi insiste: visto che sono pagata (e poco) a cottimo, cioè a pezzo, perchè dovrei farmi in quattro se, in definitiva, è il mio stesso committente ad essere disinteressato alla qualità dei miei articoli (infatti mi compensa invariabilmente con due lire)?
Il discorso, è ovvio, non fa una piega.
Anzi, accende i riflettori su quella sorta di autoricatto morale che poi spinge i freelance ad andare avanti comunque, nonostante compensi da fame, prospettive zero e nessun riconoscimento neanche morale: tanto, finiscono sempre per pensare, “…valgo anche se mi paghi poco”.
Una magrissima e depistante consolazione, però. Che facendoti sentire vittima ti spinge ad abbassare le pretese nel nome di una presupposta quanto inutile superiorità morale nei confronti dell’editore tirchio e distratto.
“Ma se poi pensiamo – conclude la collega – che in un libero mercato, come quello dell’informazione, un freelance vale quel che riesce a farsi pagare, il fatto che uno di noi accetti di essere pagato poco dovrebbe essere fonte di preoccupazione per tutti, non solo per la su’ mamma e il su’ babbo”.
Brava Silvia, è esattamente questo il punto. Quello sul quale anch’io batto e ribatto da anni con magre (anche stavolta) soddisfazioni. Se ci sono compensi bassi, tanto bassi da essere ridicoli, non remunerativi del lavoro svolto, quasi offensivi, il problema non è solo di chi accetta di percepirli, ma di tutta la categoria.
Attenzione, però: si parla di chi “accetta”. Perchè un compenso è tale se accettato. E se io accetto compensi da fame (al punto che spesso c’è chi, senza accorgersene, paradossalmente paga per lavorare anzichè lavorare per essere pagato), non devo lamentarmi. O, peggio ancora, consolarmi adulando me stesso come “incompreso”.
La libera professione implica la redditività dell’attività svolta. Non nelle singole prestazioni (a volte può anche andar bene scrivere sotto costo), ma nel suo insieme. Altrimenti non c’è professione e non c’è professionalità. Il reddito è anche una garanzia necessaria (sebbene da sola non sufficiente) di indipendenza del giornalista.
La sua mancanza non implica il “non valere” in assoluto, è ovvio. Ma in termini relativi, sì. Perchè il collega che accetta compensi simbolici contribuisce ad appiattire le remunerazioni di tutti verso il basso e danneggia quindi anche me. Deve smettere. O di accettare due soldi, o di fare il freelance. Tanto, se non smette, è il sistema che lo fa smettere, strangolandolo economicamente.
Speriamo che questo punto venga fuori con chiarezza all’ormai imminente conclave della “Carta di Firenze“, gli stati generali del giornalismo italiano convocati nel capoluogo toscano per il 7 e 8 ottobre prossimi.