Dicono che il rock sia morto, ma io non credo. E’ vecchio e statico, però. Recita un copione da palcoscenico o si nasconde tra pieghe ove nessuno lo nota. Perchè ha perso ruolo, funzione e pure quell’anima canagliesca che lo rendeva becero, ma vitale.
Era da un paio da mesi che su FB dovevo all’amico Alessandro Franceschini una risposta alla domanda delle cento pistole: “Dove va il rock?”.
Alla base, un suo commento critico sui Greta Van Fleet e un articolo di Gino Castaldo per Repubblica, intitolato “In morte del rock: la rivoluzione è finita”.
Lì per lì commentai:“Mi sorprendo sempre più spesso a pensare che il rock and roll abbia esaurito le sue funzioni artistiche con l’esaurimento del contesto socioculturale all’interno del quale e per effetto del quale era nato. Ne consegue che tutto ciò che si colloca fuori da quell’epoca non è che non abbia valore in assoluto, ma non ha un’utilità. Mi pare come se non fosse vivo e contemporaneo, ecco, ma solo genere“. E proseguivo: “E’ un argomento al tempo stesso appassionante e facile, ma lungo da trattare, quindi ti risponderò a tempo debito, articolatamente…”.
Chiamato in causa, un altro amico, Leonardo Bonechi, a seguire chiosava così: “Penso che il rock, come ogni altra espressione artistica, sia soggetto alle fasi della fioritura, del pieno sviluppo e del declino. Quali e quante di esse siano già trascorse non saprei dire: la mia impressione – ma è solo un dato soggettivo e quindi opinabilissimo – è che ci troviamo abbondantemente nella terza. Detto questo, anche nella fase calante di una cultura ci possono essere espressioni di grande arte. I Greta Van Fleet mi sembrano appartenere ad una sorta di manierismo del rock anni settanta che trovo estremamente godibile ma non di grandissimo interesse. Diciamo che, dal mio punto di vista dei miei gusti, mi danno parecchia soddisfazione e certo li preferisco di gran lunga alla paccottiglia x-factoriana che imperversa oggi. Quanto alla profondità delle emozioni, il discorso è tutto un altro”.
E’ una questione su cui in queste settimane ho rimuginato a lungo e su cui, anzi, nel mio intimo rimuginavo già da parecchio prima.
Al punto che colgo oggi l’occasione per fare una sorta di pubblica confessione destinata a suonare piuttosto clamorosa: mi sento sul punto di divorziare dal rock and roll.
Parlo del rock and roll inteso nel senso più ampio e trasversale, cioè di quella vasta prateria che abbraccia mille generi e sottogeneri, dal colto al grottesco, sconfinando spesso oltre i medesimi ma riunendoli tutti in una sorta di modo collettivo di sentire e in cui tutto trova alla fine cittadinanza: arte, spettacolo, business, ciarlatanismo, poesia, disperazione, truffa, passione, ipocrisia, simulazione, adulazione, abbaglio, corruzione, genio. Il rock inteso insomma più come uno stato d’animo, una polarizzazione, che non come una stretta tipologia musicale. Su cui si innestano, nel mio caso, altri due fondamentali elementi: l’approfondimento esegetico-culturale della materia e l’approccio critico alla stessa.
Ebbene: pensa e ripensa, nella ragione del mio incipiente divorzio ho concluso che sta per intero anche la risposta dovuta ad Alessandro.
Una risposta di natura socioeconomica, innanzitutto.
La musica in generale, e il rock in particolare, è infatti qualcosa di totalizzante: richiede cioè, a chi la ama, una partecipazione incondizionata, un coinvolgimento assoluto, un’immersione permanente. Mentre fai altro, essa ti suona comunque in testa. Ti cerca. Ti obbliga. E’ una musica nata e fatta per stare al centro: dei pensieri, della vita, degli interessi, delle giornate. Quindi anche degli investimenti, economici ed emotivi, di chi l’ascolta. Anche nei momenti in cui ti dedichi a cose diverse.
Nella società di oggi, però, la musica (e quindi il rock) non ha più la centralità, anche fisica, che aveva fino a vent’anni fa. Allora essa – cioè la musica vissuta “addosso” – era una parte integrante dell’esistenza quotidiana. Era ovunque. Una presenza naturale, implicita. Era impensabile l’idea di farne a meno, anche volendo. Ora invece non più. E’ diventata un sottofondo, un’appendice, un’eventualità delle tante. Piacevole ma, se non superflua, quantomeno voluttuaria, occasionale.
Da qui la decadenza del suo ruolo e della sua qualità media.
Intendiamoci: non intendo dire che ciò in assoluto sia un male o una gratuita degenerazione. Nè rimpiangere a priori i bei tempi andati e bla bla bla. Non voglio nemmeno sostenere, perché mentirei, che oggi non si produce rock di elevato spessore artistico. Ma, decaduto il ruolo fondamentale e, oserei dire, la funzione, il resto viene di conseguenza: un calo generalizzato di tensione creativa, di coinvolgimento emotivo, di attenzione critica, di dinamismo produttivo. La stessa industria del rock è collassata. Si regge sui megaconcerti, gli show. Il rock è riconfluito in gran parte nel mercato dell’intrattenimento puro, nella “leggerezza” da cui esso, almeno nell’accezione in cui lo intendiamo, storicamente ambiva a distaccarsi o come minimo a distinguersi. Oppure si è ritirato nella nicchia invisibile riservata ai cultori, emarginato, trascurabile come fenomeno sociale e, appunto, culturale. In una penombra che, a noi che invece l’abbiamo vissuto appieno, lo fa sembrare morto.
Molti attribuiscono buona parte di questo declino alla liquidità della musica odierna, cioè all’evolversi digitale degli strumenti di riproduzione sonora.
Io, al contrario, credo che ciò sia non una causa, ma un effetto. Lo scivolamento della musica dal centro ai margini comporta la sua degradazione da piatto principale a contorno, da protagonista a comparsa. Il sottofondo non ha bisogno di identità, di materialità, di riconoscibilità immediata, di copertine, di testi da compulsare. Non necessita di essere oggetto, né di essere tangibile, nè di essere esplorato, indagato, studiato. Basta scaricarlo, nasce effimero.
Ma il rock si presta a fare da musica di sottofondo?
Non mi pare. Se non nell’ottica di quell’intrattenimento che non a caso ne incarna oggi, come detto, la decadenza.
Nel suo articolo, analizzando i motivi della crisi, Castaldo sciorinava molti e condivisibili argomenti.
“Schiavo degli stereotipi, ostaggio dei grandi vecchi, assediato dal rap. Perché il genere che cantò la libertà non racconta più il nostro presente?”, dice nel sommario. E prosegue: “Il rock è morto, o è solo vecchio?”, titola Bill Flanagan sul New York Times, ed è un altro modo di vedere la questione: magari è solo fuori moda, ripetitivo, legato a stereotipi logori ma di sicuro non è più musica per ragazzini. Le nuove generazioni guardano altrove, anche perché a cercarlo bene di rock buono ne circola, ma gira nei bassifondi delle minoranze, è troppo discreto o troppo estremo per superare la soglia di massa”.
Appunto: è una musica, al di là delle questioni terminologiche, che nella sua espressione autentica è (ri)diventata di minoranza. In un certo senso lo è sempre stata, a dire la verità, ma nel grande, come si dice, rientrava il piccolo. E’ sempre esistita una piramide qualitativa dei musicisti e degli ascoltatori. Ci sono sempre stati livelli diversi di ascolto e di comprensione. Ma il rock comunque raggiungeva la massa, aveva una sua intrinseca vitalità popolare. Che lo amasse o meno, col rock la gente era cresciuta insieme per decenni. Oggi invece è solo genere. Clichè. Coi musicisti settantenni che recitano la parte degli scapigliati e gli appassionati settantenni che fanno finta di non accorgersene, continuando a guardarli con gli occhi di quando ne avevano trenta. Ciò perché non tutti gli artisti hanno saputo sfuggire al destino beffardo di trasformarsi in stereotipi di sé. Non a caso, le reunion si sprecano. Ovviamente nel nome del dollaro. Ma ciò sarebbe il meno, se producessero qualcosa di valido. Il mercato della nostalgia imperversa. Ha anch’esso una sua dignità, non lo nego. Ma va chiamato col suo nome. E chiarito che ha a che fare col passato, non con la contemporaneità.
Nel cruciale 1973 avevo tredici anni e uno dei primi numeri di Ciao 2001 che comprai strillava “Mick Jagger ha trent’anni”. Mi parve una cosa catastrofica, una mostruosità, un evento impensabile. In una delle scene madri di “Quasi Famosi”, il film di Cameron Crowe che, è noto, rappresenta secondo me il massimo mai girato sul rock and roll (e ambientato, non a caso, sempre nello spartiacque del 1973), il manager della band fa una paternale ai membri del gruppo dicendo: “Mica penserete che a cinquant’anni Mick Jagger sarà ancora lì a fare la rockstar? In questo mondo bisogna prendere ciò che viene, come viene, dove si quando si può”.
Di anni invece Jagger ormai ne ha compiuti settantacinque ed è ancora lì in paillettes su un maxischermo. Springsteen, il grande ma stagionato Springsteen, si è trasformato da tempo in un grandioso performer che però non ha più una goccia di blue collar sweat a bagnargli gli accordi. Fa spettacolo, un super spettacolo, ma l’arte intima del rock è un’altra cosa. E’ diventato un genere anche Bruce. Bello, ma un genere.
Ecco perché, se nel 2019 devo ascoltare degli emuli dei Led Zeppelin che, per formidabili che siano, saranno sempre peggiori degli originali, preferisco ascoltarmi i secondi. Oppure cercarmi qualcosa di nuovo e di emozionante tra le pieghe semioscure di un rock and roll su cui il sole dell’attualità è tramontato.
Insomma, la banalità del rock di oggi mi irrita, il suo tum tum scenografico mi disturba. Le copertine dei giornali dedicate agli ottuagenari mi rattristano. Le rievocazioni mi annoiano, perchè ormai si è scritto e saputo quasi tutto. Le recite mi urtano. I nonni che ruzzano a fare i nipoti mi turbano. Non dico che davvero dovessero morire prima di diventare vecchi, ma un po’ di dignità e di consapevolezza non guasterebbero. Sempre che non si voglia accettare il fatto che ciò che chiamavamo rock si è ridotto a una dolorosa simulazione o a una patetica operazione nostalgia per fans appassiti. Perchè una cosa è amare la grande musica e i grandi musicisti del passato, un’altra quella o coloro che tali non sono più.