Tempo fa, non senza sprezzo del ridicolo, Nomisma vagheggiava un’agricoltura italiana fatta di dilettanti e di dopolavoristi. Ora il sottosegretario Buonfiglio invoca invece un’agricoltura tecnicamente (e “comunitariamente”) intesa ristretta alle sole 300mila imprese agricole “efficienti”, buttando così a mare milioni di ettari e di aziende costrette, dal contesto e dalla natura dei luoghi, ad essere poco strutturate e molto tradizionali. La verità, forse, sta nel mezzo: l’agricoltura non è più solo nè un’attività economica pura, nè il refugium peccatorum dei lucratori di premi Ue a sbafo, ma lo strumento (forse il principale) per il mantenimento dell’ambiente e del contesto socioculturale rurale.

Si tratta di intendersi, una volta per tutte. Si tratta di stabilire se l’agricoltura, come è stato finora, debba continuare a essere considerata un’attività economica tout court, alla stregua dell’industria e del commercio, e quindi sottoposta alle rigide e spesso crudeli leggi dell’economia. Oppure se, nel mondo evoluto di oggi, non vada intesa invece in un senso più ampio. Un senso in cui al termine “primario” venga attribuito un significato esteso: non solo di utilizzo economico della terra, ma anche di prima gestione della stessa, con tutte le sue implicazioni ecologiche, etiche, culturali, estetiche.
Poche settimane fa, proprio su questo blog (vedi), siamo stati i primi a dileggiare certe grottesche “evidenze” emerse da una ricerca di Nomisma secondo la quale il “futuro” dell’agricoltura italiana sarebbe nascosto, figuriamoci, tra le pieghe del cosiddetto hobbyfarming, il dopolavoro insomma, quello del nonno che fa l’orto e delle centinaia di migliaia di micro (e pseudo) aziende agricole italiane che si aggirano attorno all’ettaro di superficie, poco più di un campo di calcio, ma assorbono comunque, pur non essendo professionali e quindi non producendo ricchezza, una cospicua parte dei contributi, benefici, sgravi spettanti al mondo agricolo.
Oggi, però, sul bel settimanale on line Teatro Naturale dell’amico e collega Luigi Caricato, compare un articolo in cui il sottosegretario del Mipaf Antonio Buonfiglio, da una prospettiva opposta, riapre la questione. E, in sintesi, dice: non è vero che i soldi per l’agricoltura non ci sono, vanno solo usati meglio. Riceviamo dalla Pac 7 miliardi di euro l’anno. Il problema è a chi li diamo, perchè su un 1,7 milioni di aziende agricole solo 850.000 hanno la partita Iva, solo 600.000 presentano la dichiarazione Iva, solo 523.000 hanno contributi previdenziali e meno di 300.000 sono assicurate. Dovremmo ridistribuire un miliardo di euro tra queste ‘vere’ aziende. In Italia invece, continua Buonfiglio, a ricevere le agevolazioni per il terreno agricolo sono circa 5 milioni di persone: “questo vuol dire che ci sono oltre tre milioni di persone che ricevono soldi per tenere in ordine il giardino di casa. Va rotto questo sistema per un fatto di giustizia sociale. Una volta che faremo questo, e basta un emendamento in una riga, l’agricoltura potrà accedere ai soldi che le spettano”.
Tecnicamente e economicamente, il discorso non fa una piega. Ma è molto unilaterale. Troppo. E mostra una visione paraindustriale dell’agricoltura, di un’agricoltura concepita come agrindustria, fatta di cellule produttive indipendenti tra loro, elastiche, riconvertibili, protette dalle tempeste dal tetto di un solido capannone, insediate su terreni fertilissimi e facilissimi da coltivare. Gli stessi, diciamolo, che per millenni sono stati evitati per i loro impaludamenti, il clima malsano, le scorribande di barbari e predoni, insomma per tutte quelle ragioni che – ok, semplificando molto il discorso, ma la sostanza non cambia – hanno dato vita al magnifico paesaggio agrario italiano e alla sua variegata cultura rurale.
Va aggiunto – senza con questo voler minimamente difendere i molti, anzi moltissimi che assorbono risorse per una sorta di effetto burocratico, rientrando cioè formalmente tra i beneficiabili ma non svolgendo in realtà alcuna attività utile o tale da giustificare l’esborso – che il “giardino Italia”, ovvero il Bel Paese, ovvero quell’insieme di paesaggi, culture, colture, usi, costumi, a volte anche cartolineschi, ammettiamolo, che si riassumono nel mondo agricolo italiano rappresentano per il nostro paese un enorme valore aggiunto e un biglietto da visita di inestimabile valore per il turismo latamente inteso e in generale per l’immagine italiana.
Ma, soprattutto, va considerato che l’azienda agricola e ciò che retrosta ad essa (un agricoltore, la sua famiglia, la sua storia, le sue tradizioni, le sue abitudini, la stessa vicenda agronomica e fondiaria) è il tessuto connettivo del territorio, per non dire il suo cane da guardia. Agricoltura (e non agrindustria o agriefficienza) significa antropizzazione del territorio, presenza, vigilanza, manutenzione e mantenimento.
Chissà se il sottosegretario Buonfiglio si è mai chiesto, ad esempio (e con lui i tanti Savonarola che, senza capire nulla di agricoltura, predicano moralisticamente e capziosamente contro i sussidi agricoli: vero cara Gabanelli, vero caro Riotta?), che ne sarà della già disastrata situazione idrogeologica italiana quando quel milioncino di imprese agricole di ogni dimensione che, condannate ad essere “inefficienti” dal clima o dall’orografia o dalla burocrazia o dalle tabelle del ministero, private dei “ricchi” sussidi Ue chiuderanno i battenti e lasceranno alle ortiche e alla macchia selvatica campi, boschi, fossi, pascoli, colline, terrazzamenti, frutteti, oliveti? Se non se lo è chiesto una risposta l’avrà comunque e presto, perchè il fenomeno è già in atto e le conseguenze sono catastrofiche.
Oppure si è mai chiesto che diranno i tanti visitatori (sui quali il nostro paese ha costruito la lucrosa industria del turismo, del tempo libero e dell’aria aperta) quando, aggirandosi per le campagne alla ricerca di vedute “pittoresche”, anzichè pettinati vigneti, olivi dalle foglie argentee e fruscianti pioppeti scopriranno distese di remunerative, “efficienti” ma orride coltivazioni di canne palustri o di robinia da taglio meccanico? Se bruciasse dalla curiosità, ancora una volta il sottosegretario e i sodali di cui sopra si tranquillizzino: pure stavolta il fenomeno è già in atto.
Per non dire dell’estasiante effetto estetico della campagna abbandonata, delle colture inselvatichite, delle frane, dei dissesti.
Personalmente non credo che tutti gli agricoltori debbano ardere del sacro fuoco dell’impresa, della produzione del massimo utile con la minima spesa. Credo invece che molti, e in ciò risiede la ragione della loro permanenza in campagna, lo siano anche perchè l’azienda agricola è ciò che dà loro da campare. E che il motivo del loro restare sia il radicamento.
Ma aldilà di tutto, è impensabile credere che gli agricoltori, qualunque tipo di agricoltore, possa accettare di essere trasformato, come tanti soloni vorrebbero, in “forzati del giardinaggio” conto terzi per mantenere a favore della comunità, ma senza ricevere nulla in cambio, la stabilità, la bellezza estetica, la praticabilità dei suoli e del paesaggio. Pura e pericolosa utopia. Perniciosa politica sociale.
Vogliamo che – senza chiamarli “agricoltori” in senso tecnico – chi vive nel mondo rurale collateralmente alla cosiddetta “agricoltura produttiva” non riceva più sussidi per un’attività che non può più essere considerata economica in quanto non efficiente? Bene. Cambiamo termini. Chiamiamoli incentivi, ammortizzatori rurali, compensazioni del reddito, pannicelli caldi, elemosine, regalie.
Ma pensare che un territorio possa sopravvivere senza gente che ci abita e che, abitandoci, lo cura e che, curandolo, ha bisogno di essere remunerata per quello che fa, è pura follia. O pura demagogia.