“Liberista e ambientalista”: questo lo spirito della PAC 2014/20, con cui l’Europa disegna l’agricoltura dei prossimi 7 anni (e impegna il 40% del bilancio). Un labirinto politico-burocratico in cui, per essere sostenute, le imprese dovrebbero confrontarsi “col mercato”, ma produrre “beni pubblici”, cioè paesaggio e ambiente. Peccato che…
Comincia a prendere forma la nuova PAC, da cinquant’anni croce e delizia di tutti gli agricoltori europei. A Bruxelles, com’è tradizione, si litiga e si tratta. Ma il 14 marzo, con il voto plenario, una decisione andrà presa.
Stavolta però la piega è diversa. Molto diversa rispetto al passato.
Ciò che fa discutere (o dovrebbe far discutere) non sono tanto le singole misure, pur importanti, che privilegiano o penalizzano certi settori o certe produzioni. O la paventata riduzione (si parla di -12,6%, ma andrà peggio) del budget.
A preoccupare più di tutto sono la filosofia di fondo e il radicale cambio di prospettiva assunto dalla Commissione. Anzi, il suo letterale capovolgimento.
A dettare l’orientamento della PAC 2013-2020, cioè il documento attraverso il quale l’Unione Euroea regolamenta il settore agricolo, ne fissa gli obbiettivi e stabilisce in che modo sostenere il comparto, stavolta non è infatti ciò che parrebbe logico, ovvero l’interesse dell’agricoltura intesa come attività socioeconomica, ma l’interesse a mantenerla di un generico “cittadino comunitario“. Il quale ora, tramite la nuova PAC, può “ordinare” all’agricoltore che cosa deve produrre se vuole essere aiutato coi soldi comunitari.
Altrimenti, questo il succo, il contadino nei suoi campi faccia pure cosa vuole, ma dall’Ue non vedrà una lira.
In pratica, un ricatto.
Lo so, detto così è un po’ brutale e perfino provocatorio. E lungi da me rimpiangere i tempi degli incentivi alle eccedenze e dell’esplosione dei bilanci. Ma la realtà odierna non è molto diversa dal paradosso appena illustrato.
A tale riguardo è stata davvero interessantissima e a tratti illuminante la conferenza, organizzata al Grand Hotel Serre di Serre di Rapolano (SI) dalla Liberi Agricoltori Siena, che il professor Angelo Frascarelli, docente di Economia, Politica Agraria e Politica Agroalimentare presso l’Università di Perugia, ha tenuto giorni fa sull’argomento.
Non sto qui ad addentrarmi nei meandri burocratici e nelle sottigliezze che scandiscono il divenire della normativa, comunque decisiva per il futuro di milioni di imprese agricole italiane ed europee (anche se la coincidenza tra il nostro periodo elettorale, con le fatali “distrazioni” dell’esecutivo, e alcuni passaggi cruciali del negoziato comunitario inquieta parecchio, visto che sono in ballo interessi vitali per l’Italia).
Nè è questa la sede per approfondire tutte le pur copiose e altrettanto interessanti questioni tecniche e agronomiche che, allo stato delle cose e dei loro probabili sviluppi, la bozza della nuova PAC suggerirebbe.
Mi preme invece spiegare bene proprio il passaggio “ideologico” che essa comporta.
E la sua portata.
Che tradotta in conseguenze pratiche potrebbe equivalere a questo: condanna a morte per inedia proprio delle aziende alle quali, in teoria (e sono la maggioranza), il fantomatico “cittadino comunitario” (immaginato ideologicamente come una caricatura ipnotizzata dalla pubblicità, abbindolata da utopie edulcoranti e dimentico delle proprie radici) si rivolge.
Il punto centrale è l’introduzione nella PAC del concetto di “bene pubblico“. Qualcosa cioè di virtuoso, teoricamente necessario e vantaggioso per l’intera comunità, che l’agricoltore è chiamato a produrre “in cambio” dei sovvenzionamenti alla sua attività.
Altrimenti non potrà contare su alcun aiuto, ma dovrà operare in un contesto di economia di mercato pura, cioè produrre quello che lo stesso mercato (globale) chiede.
In teoria, appunto, tutto ciò non fa una piega.
In pratica, almeno nel 70% dei casi italiani, significa invece che quel prodotto agricolo (grano, olio, girasole, soia) destinato al “mercato” non potrà in alcun modo essere remunerato sufficientemente attraverso il suo prezzo di vendita, per via di un differenziale di costi talmente alto da porci fuori gioco fino dalla partenza. E siccome è non nemmeno pensabile nè che un’azienda possa produrre in perdita, nè che possa produrre cose diverse da quelle che la natura, il clima e i terreni (l’agricoltura si fa a cielo aperto) gli consentono, ciò vuol dire che tante fattorie, già oggi in difficoltà per una crisi antica, prima o poi chiuderanno. Operai a spasso, campi abbandonati. E addio paesaggi, cartoline, turisti in bici, agriturismi, retorica più o meno bucolica, spot vari, eccetera.
E’ la dura legge del liberismo? Bene.
Il bello però (bello si fa per dire) è che tutto quanto sopra, ovvero ciò che nella campagna “vera”, in collina e in montagna, andrà irrimediabilmente perduto, è lo stesso che, parallelamente, gli eurocrati (si presume opportunamente foraggiati dalle megalobby trasversali che manovrano i grandi interessi dell’economia mondiale, non ultimo il mercato fondiario globale) incoraggiano e descrivono come “bene pubblico” da “produrre”: verde, siepi, boschetti, paesaggio, ambiente, salubrità.
Ricapitolando: con una mano l’Ue ti impedisce di sopravvivere svolgendo la tua normale attività economica, cioè l’agricoltura, negandoti i finanziamenti indispensabili alla tua sopravvivenza come imprenditore, con l’altra ti finanzia la produzione di beni sociali che, però, di per sè non danno alcun reddito e quindi sono giardinaggio, non impresa. Dunque ti faccio morire comunque, perchè oggi l’azienda agricola media può campare solo se unisce i modesti margini economici agli altrettanto modesti contributi comunitari.
Insomma, il “cittadino” pretende di avere una campagna piena di agricoltori-giardinieri pronti a rendergli piacevole, “molto pittoresca“, come diceva Montesano, e vendibile la vista del panorama. Però non li vuole assumere, eh no. Non vuole stipendiarli, nè mantenerli. Dovrebbero mantenersi da soli, accollandosi un rischio imprenditoriale che, per le stesse leggi volute dal “cittadino”, è impossibile da sostenere. Immolandosi così per la gloria.
Finirà che, al termine del settennio, il nostro legislatore-utopista le ubertose campagne rese dilettevoli dall’operoso lavoro dei contadini se le vedrà in cartolina.
Quelle in bianco e nero, però. Perchè sotto il cielo, quello vero, ci sarà solo tanta campagna abbandonata.
Che non è ecologica, nè utile, nè bella e nè piacevole. Neppure da fotografare.