E’ ancora agricola un’attività che è tale di nome ma non di fatto? Una cultura come quella rurale – per definizione trasversale, capillare e “locale” – è compatibile con una funzione della terra intesa in senso unicamente economico e “globale”, messa a servizio delle esigenze del mondo? Dopo il convegno dedicato ieri all’argomento dall’Accademia dei Georgofili, ecco alcuni ragionamenti a ruota libera.
L’antiquario e il benzinaio sono figure che condividono l’appartenenza al vasto universo del commercio. Ma a nessun antiquario, in tempi normali, verrebbe in mente di mettersi a vendere benzina. E a nessun benzinaio verrebbe in mente di buttarsi nel commercio dei mobili antichi. A meno che non sia provato che l’improbabile connubio tra lo smercio di carburanti e la vendita di cassettoni d’epoca abbia un qualche senso commerciale. Produca, cioè, un reddito tanto maggiore da giustificare l’inusuale abbinamento. Oppure ci sia un tale fabbisogno di reddito che “tutto fa brodo”.
Quando però, per continuare l’attività e sopravvivere, l’antiquario diventa anche benzinaio (e viceversa), ciò significa che, in sostanza, è costretto a cambia mestiere.
E’ quello che, camuffato sotto vari eufemismi, da qualche decennio sta avvenendo in un’agricoltura che di agricolo in senso stretto ha sempre meno. Forse solo il fatto di essere esercitata sulla terra. E che, per campare, è stata progressivamente costretta ad allargarsi a settori solo nominalmente agricoli. Come l’agriturismo (vero nome: attività ricettiva), la bioenergia e il fotovoltaico (vero nome: produzione di energia), la multifunzionalità (vero nome: prestazione di servizi a terzi). Non è stata quindi un’avanzata del mondo agricolo, ma una sostanziale ritirata. Un far buon viso a sempre peggiore gioco.
Tutte cose che mi sono venute in mente scorrendo la sintesi del convegno, organizzato ieri a Firenze dall’Accademia dei Georgofili e dalla Fondazione Cesifin – Alberto Predieri, con il titolo “Una nuova agricoltura, tra crisi delle materie prime e globalizzazione”.
“Dall’affermazione della necessità di rivalutare l’attività primaria, inscindibilmente legata da sempre alla garanzia del cibo quotidiano per tutti – si legge – è emersa la necessità di adeguare i redditi degli agricoltori a quelli degli altri settori (commercio, terziario, artigianale) e di fare leva sulla ricerca scientifica (soprattutto genetica) e sull’innovazione tecnica per incrementare le produzioni unitarie. Con i dovuti investimenti ed una consapevole azione politica, una nuova agricoltura è dunque possibile”.
Il problema è che l’adeguamento dei redditi agricoli è il fine da raggiungere per il salvataggio dell’agricoltura, non il mezzo. E che, massime in un’ottica globale, l’aumento delle produzioni appare economicamente e razionalmente possibile non riportando a coltura i terreni marginali e quindi restituendoli al mondo rurale, ma appunto sfruttando ancora meglio (magari con il ricorso alla manipolazione genetica, con tutte le questioni etiche ad essa connesse) le aree migliori. Emarginando cioè, e deprimendo ulteriormente, quei territori meno fortunati che già oggi risultano espulsi dal sistema produttivo e, di conseguenza, sociale.
Resta da chiedersi se tutto ciò possa essere chiamato “nuova agricoltura” e come questa sia compatibile con il mantenimento della ruralità, della presenza umana nelle zone depresse, di una cultura agricola che è fatta sì di ratio economica, naturalmente, ma anche di tradizione, paesaggio, stile di vita, valori metaeconomici.
O forse per “nuova agricoltura” si intende proprio qualcosa di radicalmente diverso, destinato a spazzar via ciò che, ormai non più salvabile, resta della “vecchia”, per prenderne il posto in una differente declinazione?
Potrebbe essere la strada per uscire dall’ipocrisia e dell’evocazione di un mondo che non c’è più.