Tranne poche eccezioni, alla mia provocazione dell’altro giorno (“l’Fnsi firma contratti per gli autonomi ma non ne rappresenta quasi nessuno”) sono seguiti solo silenzi, a volte anche minacciosi. Troppo forte l’argomento o troppo debole l’interlocutore?

Giorni fa ho pubblicato (qui) un molto discusso pezzo nel quale mettevo in dubbio la legittimità qualiquantitativa dell’Fnsi a rappresentare tutti i giornalisti nel momento in cui si accingerà, e manca poco, a sottoscrivere il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro.
La nota nasceva dal fatto che gli autonomi sono ormai il 60% dei giornalisti attivi ma che, tali autonomi, sono appena il 7% degli associati al sindacato.
Mi chiedevo quindi quanto fosse rappresentativo della categoria un organismo che, arrogantemente unico e certamente non unitario, firma un accordo vincolante per tutti pur avendo il mandato (e per carità di patria non mi addentro nelle polemiche interne alla Federazione sulla gestione della faccenda) di un’esiguissima parte dei presunti rappresentati.
Ho avuto solo qualche pacata risposta pubblica da colleghi e amici sindacalisti. Con i quali sono peraltro in sintonia quasi su tutto tranne, appunto, l’appartenenza a un sindacato che non ritengo tutelare i miei interessi di libero professionista.
Qualcuno dei miei interlocutori ha detto che per cambiare e “pesare” bisogna stare dentro e non fuori, auspicando quindi adesioni massicce all’Fnsi, qualcun altro ha sostenuto che, adesso, l’importante è mandare a monte questa bozza di contratto punitiva e miope, poi si vedrà. Altri ancora hanno sottolineato che la creazione di un altro sindacato non è all’oggi, comunque, realistica. Se ne discute e se n’è discusso altrove.
Ma il punto non è questo.
E’ che invece, dal resto del mondo giornalistico, ho ricevuto (nella stragrande maggioranza dei casi in privato, purtroppo) reazioni di una triplice natura.
La prima è di sconcerto. Della serie: accidenti, hai ragione, non ci avevo mai pensato.
La seconda è di smarrimento. Della serie: me ne sono sempre occupato poco o nulla, quindi ne capisco poco o nulla, e ora non so che pensare.
La terza è di rancore. Della serie: bada come parli, come ti permetti, ma tu chi sei, che vuole questo, il solito rompicoglioni, adesso gliela facciamo vedere, etc. Questo terzo tipo di reazione si è manifestato in due sottotipi: in espressioni dirette o indirette di fastidio e risentimento, oppure di sordo, bilioso ma esplicito silenzio. Un silenzio assordante, è ovvio. Fatto pure di occhiate variamente minacciose.
Ora, io capisco che tanti in buona fede sono impegnati nella difficile trattativa, che l’argomento è delicato, che le scale son di vetro, che i distinguo sono molti, che i problemi sono complessi.
Ma non mi pare che l’argomento della scarsa rappresentanza e della scarsa legittimazione sindacale possa – in un periodo di abissale difficoltà per una professione a rischio di estinzione – essere liquidato con una congiura del silenzio, facendo finta di non vedere.
Avrei di gran lunga preferito che il leviatano avesse reagito squadernando numeri, ostentando patenti, millantando benemerenze.
Invece, nulla.
Sono io che ho colto troppo nel segno o il sindacato è ridotto talmente ai minimi termini da non avere capacità di reazione nemmeno di fronte a provocazioni intollerabili come la mia?