Basta poco a riaccendere i ricordi, ma l’amarcord per una volta non c’entra. Occorre la consapevolezza di ciò che è stato per dare oggi, mentre si profila (qui) la fine della radio analogica, una misura al passato.

Soundtrack: “Glad” (Traffic)

C’è un gran disco del 1980, di quelli che lasciano il segno, che si apre con alcuni secondi del rumore di fondo tipico di un sintonizzatore (cosa mai sarà, si chiederanno i nativi digitali) che intercetta le frequenze radio. Si percepiscono voci, marcette, il riff di “Smoke on the water“, un lampo di “Holidays in the sun” dei Pistols. Infine parte “Burn it down” (qui).
Che suono!
Quello del sintonizzatore, intendo. Una sorta di sigla, di antipasto alla musica.
Si accendeva con un leggero schiocco, il display si lluminava, appariva la scala graduata delle frequenze e cominciava la ricerca. O meglio la sintonia, a colpi di lente, precise rotazioni della manopola. Sibili e ronzii, echi. Poi, finalmente, l’FM giusta. Stereo, è ovvio.
Se non sbaglio, il tuner hifi più costoso, sofisticato, migliore del mondo era americano, marca Sequerra.
Il disco citato in apertura, invece, è “Searching for the young soul rebels” dei Dexy’s Midnight Runners.
Un LP che ho letteralmente consumato. E trasmesso in FM decine di volte.
Quando però le “radio libere” erano già diventate “emittenti private” da un pezzo.
Perchè non è vero, come comunemente si dice, che il fenomeno nacque il 27 luglio del 1976, quando la Corte costituzionale dichiarò la liberalizzazione dell’etere.
Tutto era cominciato oltre un anno prima, con la contagiosa, frenetica allegria riservata alle cose (quasi) inoffensivamente proibite in un’Italia ancora di provincia. Subito dopo era venuta la corsa alle frequenze. Le emittenti nascevano come funghi nelle case, nei garage, nei sottoscala. Per scherzo, per gioco e non.
Radio Alternativa Fiorentina ad esempio, dove ho cominciato io alla fine del ’75 con tanti amici quindicenni, era addirittura in una sede della curia, a Palazzo Pucci. E la RAF era appunto conosciuta come “la radio dei preti“, in un’epoca in cui appartenere a quell’ambiente non era poi popolarissimo. Io in effetti non ne facevo parte, ma tanti dei miei compagni di scuola sì. E a me interessava trasmettere la musica, punto e fine.
Ci si accedeva da scale monumentali e quindi da un ballatoio che dava sul cortile.
Prima si trovava uno stanzone che faceva da sede e direzione. In un altro stanzone c’era la sala da cui si trasmetteva, ingombra di apparecchiature e delle rastrelliere dei dischi (odore di cartone e plastica indimenticabile). Nel mezzo, la cosiddetta “stanza del rosario“.
Non scherzo.
In teoria riservato alla registrazione dei programmi destinati alla differita, era un ambiente usato in pratica solo per interminabili registrazioni del rosario, mandato in onda nelle ore notturne e recitato da devote signore, regolamente interrotto in più punti da porte sbattute e dagli smadonnamenti, motteggi, berci di chi passava. Noi compresi, si capisce.
Leggenda pura.
Non avevamo del resto la minima consapevolezza di quello che stavamo facendo e di ciò che stava accadendo. S’improvvisava. E gli ascoltatori erano più impreparati di noi. Il pubblico era trasversale, sconcertato, incuriosito. Telefonavano, ridevano delle nostre gaffe, si appassionavano. Il direttore passava le giornate al telefono con la DC e le gerarchie ecclesiastiche, bloccandoci la linea per ore. E noi, di là, facevamo folklore allo stato brado. Eravamo così spontanei e fuori controllo che qualcuno pensava fossimo attori e stessimo recitando. “Bravi“, ci dicevano, “continuate così“. Non avevamo idea di chi ci fosse dall’altra parte del filo e avesse acceso il sintonizzatore, nè del perchè ascoltasse proprio noi.
La professionalità, o qualcosa che gli assomigliasse, arrivò dopo.
Quando, appunto, le radio libere diventarono emittenti private. Più strutturate, con la pubblicità, palinsesti definibili tali, direttori veri e propri. Tutti comunque giovani, spesso giovanissimi a pensarci oggi. E non sempre il cambiamento fu in peggio. Ma qualcosa cambiò comunque. Finì l’euforia e cominciò la passione.
A riportarmi alla mente tutto questo e molto altro è stato ascoltare dopo parecchio tempo il pezzo dei Traffic che per l’intera durata della mia carriera radiofonico-musicale (una parabola di sette mutevoli anni) mi ha fatto da sigla.
E che trovate in testa a questo post.