E se non è morta, è malata di ipertrofia incurabile: in Italia c’è una “penna” (di nome, si capisce) ogni 500 abitanti. Se ne parla, forse con eccessivo ottimismo, il 5/11 a Roma in un convegno organizzato da Lsdi. Titolo: “Il paese dei giornalisti”.
Se mi sono autonominato (tutt’altro che compiaciutamente) Cassandro, un motivo ci sarà.
Ed è il seguente: tendo a fare previsioni negative e spesso ci azzecco, ma nessuno mi ascolta.
Così poi mi devo sorbire pure l’altrui senno di poi.
La mia preveggenza in realtà non è dovuta però a straordinarie capacità divinatorie, bensì a un uso del semplice buon senso, non accecato dagli apriorismi: mi limito a prendere atto di ciò che è già evidente, solo che a volte gli altri non se ne avvedono. O se ne accorgono dopo. Oppure quando è tardi.
Ecco perchè non mi fa affatto trasalire la crudezza dei numeri riportati dall’ultimo bollettino di Lsdi (qui) a proposito della degenerazione della popolazione giornalistica italiana. Un autentico cancro che stritola la professione.
Sono numeri facenti parte di un ponderoso “rapporto”, denominato “Il paese dei giornalisti“, che il gruppo di colleghi presenterà a Roma il 5 novembre prossimo a partire dalle 10,30 nella sede dell’Fnsi (Corso Vittorio Emanuele 349).
Eccone una estrema sintesi:
– Nel 2000 i 7/10 dei giornalisti attivi erano dipendenti, oggi 6/10 fa il lavoro autonomo.
– Nel periodo, gli iscritti all’albo (dato in controtendenza rispetto agli altri paesi) sono raddoppiati, passando da 23.387 a 47.227 (con posizione Inpgi).
– Il reddito medio degli autonomi è 1/5 della media dei contrattualizzati (pari nel 2012 a 62.459 euro). Quello dei co.co.co è di 1/7.
– Albo alla mano, in Italia c’è un giornalista ogni 526 abitanti, contro i 1.778 della Francia e i 5.333 degli Usa.
“I dati – commenta quindi Lsdi – suggeriscono il dubbio che l’impianto complessivo del giornalismo italiano possa prima o poi implodere su se stesso, anche a breve termine“.
Dubbio legittimo, ma tardivo: l’implosione c’è già stata. Solo che è stata lenta, progressiva e poco rumorosa. E’ tuttavia sotto gli occhi di tutti, basta guardarla.
Conclusa nello scorso decennio la fase di progressiva operaizzazione cottimistica del lavoro giornalistico (redazioni ridotte all’osso e contenuti affidati a collaboratori esterni pagati sempre di meno), quello presente ha visto affermarsi definitivamente la degenerazione della prima: la dilettantizzazione della categoria.
Una dilettantizzazione frutto di un effetto-tenaglia: da un lato compensi scesi prima sotto la soglia della sussistenza e poi assestatisi su quella della pura simbolicità, da un altro l’opera incessante del giornalistificio (cioè di uno scellerato, volontario abbassamento delle barriere d’ingresso nella professione), ha aperto a tutti, ma proprio a tutti, l’opportunità di “diventare” giornalista. Un tesserino in tasca e todos caballeros.
Risultato: la professionalità è scomparsa. E con essa la professione. Il giornalismo è diventato un piacevole hobby. Poco importa se a volte svolto con capacità e impegno: ciò che non ti fa campare rimane un passatempo.
Nulla di nuovo, insomma, nella scoperta di Lsdi.
Rebus sic stantibus sconcerta un po’, piuttosto, la ricetta proposta per resuscitare il caro estinto, cioè il nostro giornalismo: aprire, si legge, “una nuova stagione contrattuale, che metta al centro della strategia sindacale (e imprenditoriale) il lavoro autonomo“, varare “una radicale riforma dell’ Ordine, ispirata al principio che il giornalismo è un bene pubblico e che giornalista è chi lo fa in maniera professionale, anche se non esclusiva o prevalente. La presentazione del Rapporto – conclude Ldsi – cade tra l’altro in un momento particolarmente delicato su questi fronti: sia per la trattativa in corso fra Fnsi e Fieg per il rinnovo del contratto di lavoro giornalistico, sia per la questione della Riforma dell’Ordine, a cui è interamente dedicata la sessione del prossimo Consiglio nazionale“.
Per carità, ottima teoria. Peccato che la strategia messa in pratica dal sindacato unico vada da sempre in una direzione diametralmente opposta, che la controparte non ne voglia sapere di concedere tutele agli autonomi e che la riforma non dipenda dai giornalisti, ma dal parlamento di un paese in cui i governi durano in media meno di un anno e quasi nessuna legislatura muore di morte naturale.
Considerato dunque che, nonostante gli sforzi di tanti colleghi volonterosi, anche il nuovo contratto ignorerà come sempre il lavoro autonomo e la riforma non si farà perchè il governo cadrà prima, c’è poco da essere ottimisti.
Ciò perchè, per tornare all’inizio, da un pezzo siamo tutti professionalmente morti (anzi implosi), ma c’è un vasto interesse a farci credere che non è vero.
Ps: contribuirebbe a rendere chiara la “delicatezza” del momento sindacal-professionale anche una menzione della telenovela dell’equo compenso che però, stranamente, non viene ricordata tra le questioni “calde” che ci riguardano. Sarà mica perchè tutto avviene sotto l’ala dell’Fnsi?