E’ arrivato il bollettino odiato da molti, ma che io difendo: è la prova che la professione esiste ancora. Come quando ci misero nell’Inps e poi nell’Inpgi. E’ partita anche la revisione dell’Albo. Se non sarà troppo blanda, forse c’è ancora tempo per salvarsi.

 

Spero che, vedendo parafrasare quella sua celebre affermazione, l’ex ministro Padoa-Schioppa non si rivolti nella tomba. E spero che non si agitino troppo neppure i tanti colleghi nemici dell’OdG: nè i già professionalmente morti, nè i copiosi per fortuna ancora vivi.
Che la mia dichiarazione, all’indomani del ricevimento del consueto bollettino per il pagamento della quota annuale, sia provocatoria, è evidente. Ma dice una cosa vera: sono infatti lieto sul serio di versare l’obolo.
Le ragioni sono tante.
Innanzitutto, per cominciare dalle cose piccole, non mi pare una gran cifra. D’accordo, non sono noccioline, ma equivale a una birra media mensile in un comune pub di periferia e non mi sembra che siano molti i colleghi che lesinano su questo tipo di consumi. Insomma, se i costi sono questi e se si considera che l’iscrizione all’Ordine presume, almeno in teoria, un esercizio professionale (ovvero remunerato) dell’attività, non la trovo una rapina.
Qualcuno certamente eccepirà: ma io guadagno 3 euro a pezzo.
Gli rispondo che questo è un altro problema e che la non esistenza dell’Ordine non ne sarebbe comunque la soluzione (anzi: il poco spazio che resta sarebbe invaso senza controllo dai dilettanti puri).
Qualcun altro dirà: sì, ma che mi dà l’OdG in cambio della quota?
Rispondo che si tratta di un errore di prospettiva. Un’istituzione non “dà”, esiste. Non c’è commercio nella sua attività. Mi devo quindi interrogare, casomai, sull’utilità e sul funzionamento di quell’istituzione.
Ora è chiaro che, se si è ideologicamente contrari all’OdG, si dirà che esso non serve a niente e che, se funziona, è solo per mantenere se stesso.
Ma è proprio per questo che trovo che pagare la quota sia una cosa bellissima: l’esistenza dell’Ordine – con tutti i suoi limiti, i suoi anacronismi, le sue storture – è l’attestazione indiretta che la professione ancora esiste. E che ha una sua identità, dei suoi contorni, un suo profilo, una fisionomia tecnico-giuridica. Aspetto a mio parere di importanza fondamentale in un’epoca in cui agli occhi della gente la differenza tra informazione e tutto il resto, dalle opinioni alla reclame, passando per la propaganda, si fa sempre più opaca e a volte impalpabile. Avere un’autorità significa che le regole esistono e qualcuno le fa, teoricamente, applicare.
Trovo quindi che l’OdG sia l’ultimo pilastro, sebbene a volte solo simbolico, rimasto a separare due aree diverse della medesima libertà.
Le stesse cose che dico adesso sull’Ordine le dissi una ventina d’anni fa quando – anche allora tra i lazzi e gli insulti dei colleghi – per i giornalisti autonomi (all’epoca detti sic et simpliciter pubblicisti) dapprima invalse l’obbligo di iscrizione all’Inps e poi quello all’Inpgi2. Due circostanze contro le quali molti dalla vista corta si scagliarono, vedendoci stoltamente solo qualcosa in più da pagare. Senza capire che invece quell’obbligo era anche il riconoscimento della loro esistenza professionale. Un riconoscimento importantissimo perchè, dando loro un profilo previdenziale, implicitamente esso dava anche cittadinanza legale all’attività che loro svolgevano. La quale invece, prima di quel momento, era una sorta di  “ufo” del lavoro: invisibile, sommersa, residuale, indistinta (non a caso all’inizio ci misero con gli amministratori di condominio e i membri dei cda delle società, insomma nel calderone dei “quasi lavori”).
Già odo un’altra eccezione: l’Italia è l’unica ad avere un Ordine, che oltrettuto è un retaggio fascista.
E’ una triplice sciocchezza che liquido con poche parole: primo, non è vero che l’Italia è unica; secondo, anche se fosse l’unica non è detto che all’estero facciano sempre bene e noi male (l’esperienza dimostra il contrario: da molte parti si stanno accorgendo di quanto sia necessario qualcosa che regolamenti l’esercizio della professione giornalistica) e terzo il fascismo non c’entra, visto che l’OdG nasce nel 1963.
Concludo con un’altra affermazione che farà inquietare parecchia gente ma che, viceversa, è un ulteriore segnale di vitalità, di utilità e di civiltà: almeno nella mia regione, la Toscana, l’Ordine ha avviato la revisione dell’elenco dei pubblicisti. Ai sensi dell’art. 30 del regolamento di attuazione della l. 69 del 1963, entro il 31 gennaio tutti gli iscritti dovranno dimostrare di aver svolto attività giornalistica nell’ultimo biennio o triennio, a seconda dei casi. In mancanza di ciò, l’iscritto è “passibile di cancellazione dall’albo“.
Naturalmente la valutazione di documenti, attestati e compensi percepiti sarà discrezionale e, presumo, anche ragionevolmente quanto giustamente blanda, visto il difficile momento generale. Ma, spero, non del tutto lassa. E costituirà comunque un campanello di allarme utile per ricordare che il nostro è un mestiere, non un’onorificenza appuntata sul petto e ricevuta per pregressi meriti. Che una pletora di 110mila iscritti, di cui solo la metà realmente attivi, danneggia tutti. E che la perdita di un certo numero di quote annuali è il danno minore rispetto al rischio, concretissimo, che a breve la professione affondi e che, pertanto, l’Ordine muoia da solo, senza nemmeno il bisogno di essere riformato o abolito.
Ecco perchè mi accingo a pagare il mio bollettino con cuore relativamente sereno.