Nel nuovo libro di Luca Pollini una cronistoria “musicale”, che poi solo musicale non è, del più drammatico decennio dell’Italia del dopoguerra. Un decennio interminabile, definito da Jonathan Coe – e mica per caso – “completamente marrone”.

Soundtrack 1: Area, “Luglio, agosto, settembre (nero)
Soundtrack 2: Antonello Venditti, “Lilly
Soundtrack 3: Henry Cow,”Nirvana for mice
Soundtrack 4: Squallor, “Mi ha rovinato il ’68

Il 13 marzo del 1979 i Chieftains si esibirono all’auditorium Flog di Firenze.
Oggettivamente non avevano nulla in comune con il rock and roll, salvo frequentare sporadicamente le pagine delle riviste musicali dell’epoca. Sì, è vero, il leader Paddy Moloney anni prima aveva suonato in Tubular Bells di Mike Oldfield, ma per sua stessa ammissione il rapporto si era concluso lì. Insomma, l’esibizione fiorentina dei Chieftains avrebbe dovuto essere rubricata sotto la voce “concerto di un pur grande gruppo di musica tradizionale irlandese“.
Ovviamente successe tutto il contrario: eccitazione collettiva palpabile, pienone delle grandi occasioni.
Noi di Radio Alternativa Fiorentina, la RAF (era la radio della curia, che mescolava dediche, rosario e progressive: stranezze dei tempi), ci mobilitammo in massa. Cinque inviati, registratori per le interviste, laboriose operazioni di accredito. Fu un grande evento e un bel concerto. Anche se, ovviamente, di chitarre e sudore non ci fu traccia.
La ragione di tanto entusiasmo è semplice da spiegare: all’epoca i concerti di musica rock e dintorni (anche nel senso amplissimo di uno show dei Chieftains) in Italia non li si vedeva neppure col binocolo. Nè a Milano, nè a Roma. Figuriamoci a Firenze. L’ultimo nello stivale era stato il 13 settembre di due anni prima al Vigorelli, quando Carlos Santana era stato letteralmente messo in fuga a colpi di molotov e di scontri di piazza da quelli che allora si chiamavano “autoriduttori“. Traduzione: facinorosi a cavallo tra gli autonomi e i teppisti che, con la scusa che “la musica si prende e non si paga“, pretendevano che i musicisti suonassero gratis. O, meglio ancora, li facessero entrare gratis. “Vade retro, Santana“, titolò il giorno dopo “Il Giorno” in un articolo che è ancora da qualche parte nel mio archivio.
Scrivo tutto questo perchè, con un pizzico di malinconia, ho appena finito di leggere “Musica leggera, anni di piombo” (No Reply, 160 pagine, 12 euro), il nuovo libro di un amico, il giornalista e scrittore Luca Pollini. E grazie a lui i ricordi di quegli anni, che ambedue vivemmo in pieno, da adolescenti, e che Jonathan Coe ha poi giustamente definito “completamente marroni“, sono riaffiorati spontaneamente, nei dettagli, come accade di solito con i flashback dei momenti che hanno segnato per sempre la tua vita. Ricordi felici? No, ricordi e basta.
Si potrebbe sbrigativamente dire, allora, che il libro ripercorre, narrandone la storia e gli eventi, il lato “musicale” di quel nodale decennio italiano.
Ma sarebbe limitativo e un po’ miope. Perchè allora, come Pollini spiega bene, la musica non era “un lato” della realtà: ne faceva, invece, integralmente parte, ne era un organo vitale, un’arteria imprescindibile. Se non ti pareva, era il mondo circostante a convincerti. Il comportamento condiviso della gente a coartarti. Se non ti adeguavi, eri percepito e ti sentivi diverso. Ed ecco perchè, oggi, leggere e raccontare i seventies dal versante sonoro significa farne, come ha fatto Pollini, una cronaca a tutto tondo, usando il linguaggio dei suoni anzichè quello di ciò che ne costituiva la lingua corrente: la politica. Politica e musica si intrecciavano, si intersecavano, erano le tessere di uno stesso mosaico. La politica pervadeva ogni attimo della vita e la musica ne era dunque ben più che una banale soundtrack.
Con linearità, un rigore mai fazioso e uno stile asciutto che non scade (e non era facile) nel nostalgismo o nel colore, ma neppure rinuncia alla vividezza di chi ha vissuto le cose che racconta, Pollini ricostruisce fedelmente la cronistoria di quella parabola involutasi, nell’arco di dieci anni, dalla calda utopia del ’68 al metallo freddo delle P38, in un susseguirsi di episodi drammatici e surreali che vanno dal delitto Calabresi ai “processi proletari” contro Battisti e De Gregori, dai festival “del proletariato giovanile” di Parco Lambro alle progressive prese di distanza di musicisti sempre più increduli della piega che le cose stavano prendendo: memorabile ad esempio quando, nel 1972, uno dei miti della musica underground dell’epoca come Claudio Rocchi si presenta sul palco del Raduno nazionale di Gioventù Comunista e, invece di suonare, aziona il registratore su cui ha inciso il battito cardiaco del figlio nascituro. Sconcerto in sala. Lui sarebbe migrato definitivamente in India l’anno dopo. Nel 1975 Guccini ammetterà: “Per fare un disco ci vuole tempo e denaro“.
Questo per dire che “Musica leggera, anni di piombo” si dipana lucidamente tra disincanto ed esperienza diretta, documenti e fatti, con piena ed apprezzabile consapevolezza. Ciò che mi pare costituire il principale pregio di questo agile e ben scritto saggio: un utile pro memoria per chi c’era e un’ottima sintesi per chi, non essendo ancora nato, oggi potrebbe faticare a comprendere il perchè la musica ebbe un ruolo così determinante e centrale in quella stagione.
Una stagione che, vittima di un male oscuro e strisciante nutrito per anni, si chiuse, bruscamente, nell’arco di soli novanta giorni dell’estate 1979: tra la morte (14 giugno) di Demetrio Stratos, il leader forse fin troppo lungimirante del gruppo-simbolo dei politicizzatissimi ’70 italiani, gli Area, e i 70mila spettatori smarriti del concerto di Patti Smith al comunale di Firenze (17 settembre).