di URANO CUPISTI
Chi più lontano vede più a lungo sogna”. Ricordi in punta di moleskine dall’isola più grande del mondo, anno 1997

 

La campionatura delle acque dei ghiacciai era ben custodita in recipienti particolari e conservata in una cella frigo a Illulisat. Era finito il tempo delle ricerche. Giunto il momento dei saluti con i componenti la spedizione scientifica che rientravano in Canada.
Rimanemmo io e Peter, pronti per una nuova avventura nell’avventura. Alla scoperta della vera identità della Groenlandia, la Terra Verde. Terra verde?
Ci domandammo: ma perché terra verde quando, di fatto, è una distesa di un bianco accecante anche nel periodo estivo.
Il nome “Groenlandia” fu dato dal condottiero e navigatore normanno Erik il Rosso che approdò sull’isola nel 982 proveniente dall’Islanda dopo essere fuggito da un esilio forzato.
Anche oggi non abbiamo alcuna certezza del perché di tale nome. Gli Inuit la chiamano Kalaallit Nunaat (Terra degli Uomini) e sono pronti a dargli questo nome appena verrà riconosciuta l’indipendenza completa dalla Danimarca, che pare sia prossima.
Gli storici ricordano che è esistito (e accertato) il “caldo medievale” terminato intorno al 1450 quando cominciarono ad abbassarsi le temperature dando l’inizio alla “piccola glaciazione” così come la conosciamo. Sono stati rinvenuti lungo le coste resti di cibo animale riconducibili a bovini e ovini. Vale a dire presenza di terreni coltivati a foraggio per gli allevamenti. Da lì, forse, la Terra Verde del vichingo Erick il Rosso. Lasciamo ai posteri la risposta a questo quesito.
Al mattino l’imbarco sul “postalino” di color rosso, dal nome scontato Knud Rasmussen (il leggendario esploratore artico nato da queste parti), alla volta di Upernavik, verso la Baia di Baffin. Una lunga navigazione tra iceberg, fiordi, con soste in minuscoli paesi dove d’estate, l’arrivo del postale, è un momento di festa. Strette di mano, antichi riti consumati nei trenta minuti di “fermata”, carichi e scarichi di merci nei tempi prefissati e via nel mare lastricato dai resti degli iceberg.
La costa groenlandese sembra frantumarsi in migliaia di piccoli e grandi iceberg alla deriva. Navigammo in un labirinto di fiordi delimitati da montagne smisurate di ghiaccio assistendo ai “tuffi” spettacolari dovuti al loro sgretolamento.
Dopo tre giorni l’arrivo a Upernavik
Fantastici i nomi di questi paesi. Upernavik, ovvero “posto primaverile” perché pare luogo fortunato per un particolare microclima esistente che, d’estate, raggiunge i 10°. Ci trovammo a circa 700 Km a nord del Circolo Polare Artico.
Upernavk: circa un migliaio gli abitanti, tutti inuit, tutti cacciatori e pescatori.

Già, la caccia. Permessa a balene, foche, narvali. Quest’ultimi in particolare per il commercio dell’unicorno che altro non è che un dente canino.
Risultarono provvidenziali gli alimenti in scatola acquistati nel piccolo drugstore di Illulisat, al momento della partenza. Perché la carne di balena, foca e la pelle “marinata” del narvalo, dopo l’assaggio “obbligatorio”, non erano nelle nostre “corde”. L’effetto lassativo non si fece attendere. “Tutto come da programma” mi ricordò Peter.
Upernavik è l’ultima fermata per i “postali”. Da lì in poi solo elicotteri.
Qualche giovane inuit parlava inglese e questo ci permise di capire gli usi e i costumi del suo popolo in queste terre lontane ma comunque accessibili tutto l’anno. Se durante nove mesi all’anno i postali non arrivano fino a queste latitudini sono i collegamenti aerei, con piccoli velivoli ed elicotteri, a garantirli e sopperire alle necessità di qualsiasi natura.
La nostra sete di conoscenza ci portò a prendere il primo volo disponibile su di un elicottero della Air Greenland per raggiungere l’ultimo insediamento umano prima della calotta artica: Qaanaaq a circa un centinaio di Km dalla ben conosciuta base navale USA di Thule, arcinota durante la guerra fredda.
Ancor oggi in buona parte off limits. Sicuramente nell’anno di questo viaggio: il 1997.
La natura da quelle parti è di una bellezza straordinaria. La quintessenza di un luogo selvaggio, il deserto freddo di ghiaccio dove non prolifera alcuna forma di vita animale stanziale se non i mammiferi marini, pesci e qualche orso bianco. Gli uccelli ci avevano “abbandonato” a Upernavik.
Quello che è difficile immaginare è lo spessore dei ghiacci che raggiunge anche i 3.000 metri nel centro dell’isola. E seduti sul ghiaccio la riflessione.
In un mondo rumoroso, caotico, disordinato, in cui resta estremamente difficile ritagliarsi i momenti di pace” il sostegno e conforto donatoci dalla landa artica del nord della Groenlandia ci ha fatto conoscere il rumore del silenzio”.
Un elicottero, dopo qualche giorno, ci riportò al punto di partenza: Illulisat. Poche ore, mettere insieme “armi e bagagli” portati al seguito e via verso Kangerlussuaq dove un Boeing 747 della Scandinavian Airlines ci attendeva per il ritorno a Copenaghen (anche Peter costretto a passare dalla capitale danese per raggiungere poi Toronto).
Il rientro nel “buio della notte”. Stordito, frastornato e allo stesso tempo sbalordito dalle luci e caos apparente dell’aeroporto Kastrup di Copenaghen.
Dopo poche ore mi ritrovai sopra le nuvole diretto a Milano con il mio fedele moleskine tra le mani. Stavo pensando a come chiudere la mia esperienza. Poi l’ispirazione del viaggiatore, colui che cerca: “Chi più lontano vede più a lungo sogna” (Walter Bonatti).