Più che la grande professionalità, la simpatia, la disponibilità, il realismo e lo spiccato senso del quotidiano del musicista dell’Indiana, è ogni volta il suo spessore emotivo di compositore e di interprete a colpire. Davanti ad alcune decine di persone il songwriter ha suonato con la medesima forza e la medesima sincerità che avrebbe espresso di fronte a una platea di migliaia di spettatori, o da solo di fronte allo specchio di casa sua: senza nascondere nulla, autoidentificandosi in tutti.
Il momento della verità arriva per tutti. Per i musicisti e per il pubblico. Per il pubblico, quando è chiamato a riconoscere la bontà della musica, la sua sincerità, la sua profondità, ma anche il livello della propria dichiarata, facilmente simulabile passione. Per il musicista, quando è tenuto a offrire, lasciando sullo sfondo il facile salvagente dello spettacolo in sè, ciò in cui effettivamente consiste la sua arte. Ovvero la miscela di talento e di mezzi espressivi per riuscire a toccare corde condivise, per evocare immagini, per suscitare sentimenti non superficiali, per accompagnare a soglie di superiore consapevolezza.
In questi termini, la lezione che ieri sera a Rapolano Terme Dirk Hamilton e i Bluesmen hanno impartito durante la serata inaugurale del Crete Senesi Rock Festival (minirassegna che io stesso, per pura passione, ho allestito con pochi amici appassionati come me) è stata magistrale. Tale da compensare anche le piccole amarezze, gli stress organizzativi, i tradimenti dell’ultimo minuto.
Quando, a sorpresa, il musicista dell’Indiana ha attaccato una travolgente versione di “Dark end of the street”, il classico scritto da Dan Penn e interpretato, non a caso, da molti grandi (James Carr, Richard Thompson, Flying Burrito Brothers ad esempio), al cospetto degli spettatori si è materializzato qualcosa di difficile da definire, di mutevole, di ondeggiante. Non solo la figura di un grande performer e di un musicista raffinato, colto, ricco di una tavolozza screziata e di ottime letture. Perchè Hamilton ha anche e soprattutto giganteggiato nella totale e reciproca autoidentificazione tra sè e il pubblico, lo ha catturato, lo ha sussunto in sè, ricamando brividi sullo stato d’animo di ogni singolo, sfregando sul cuore di ognuno, abradendo la viscere. “Abbiamo tutti bisogno di musica vera”, ha detto. Senza teatralità, senza orpelli, senza studio però. E’ riuscito a rovesciare sulla platea tutto l’impatto fisico di una malinconia vibrante e di una melodia commovente.
Il resto è ormai già storia. E che storia (memorabile, tra le tante canzoni, una versione da pelle d’oca di “Night Moves” di Bob Seger). Ma è in particolare la riprova che, aldilà di tutto, perfino della retorica, i musicisti reali esistono ancora, ci sono, basta conoscerli e offrirgli un palcoscenico. Questa è stata la lezione più bella. Una lezione indimenticabile, da portare per bocca a lungo. Peccato per chi non c’era.