Nemmeno i detrattori hanno mai negato l’energia, lo slancio, la purezza istintiva del Boss. Ma, con una punta di snobismo, ne hanno spesso criticato invece la limitata capacità espressiva e l’abuso di toni semplici, poco screziati. Al contrario, ciò che rende unico Springsteen è proprio lo stupefacente, cangiante ventaglio di doti interpretative e una ineguagliabile versatilità di rilettura. Come dimostra questa inedita, densa, amarissima versione di “Incident on 57th Street“. Correva l’anno 1975…
Ci sono evidenze che, come un’onda anomala, sono capaci di travolgere e fare piazza pulita di preconcetti, isterismi da fan, inezie da critici. E ci sono poi evidenze ricorrenti che, al riaffiorare del dubbio, tornano ogni volta a spazzarlo via, sorprendendo per la luminosa chiarezza dei fatti, per l’efficacia inoppugnabile degli argomenti, per la potenza intrinseca delle cose in sè.
Una di queste è la assoluta grandezza di Bruce Springsteen. Non dell’autore, non del performer, non del cantante nè del chitarrista. Ma dell’interprete. Un interprete la cui straordinaria sensibilità, la cui mutevole varietà di toni viene spesso messa ombra dalla retorica, quella sì un po’ greve, dell’animale da palcoscenico e del r’n’r hero con la quale lo star system ha finito per dipingere quest’eroe popolare così americano e, al tempo stesso, così universale.
Il repertorio di Springsteen è infinito. Non solo per numero di canzoni, ma di sfumature interpretative. Gli esempi sarebbero centinaia.
Eppure questa “Incident on 57th Street”, brano di apertura del suo secondo (e bellissimo) album “The wild, the innocent & the E Street shuffle”, li supera forse tutti. Presa dal vivo il 5 febbraio 1975 al Main Point Club di Bryn Mawr, in Pennsylvania, l’epica, sognante, quasi cinematografica canzone che racconta la storia da bassifondi di Spanish Johnny e Portorican Jane (chi volesse leggere il testo veda qui), viene eseguita a sorpresa in apertura del concerto e proposta con un inedito arrangiamento per pianoforte che Roy Bittan, senza mai perdere il filo della melodia e del sentimento, trasforma in un susseguirsi di raffinate citazioni e reminiscenze losangelene (Randy Newman, Judee Sill…), facendo della canzone una ballata lenta e amarissima. Bruce Springsteen quasi la sussurra, mentre alle sue spalle la violinista israeliana Suki Lahav – un presenza fugace nella E Street Band – lo accompagna con una melodia sommessa e narrativa. La voce è bassa. E il suono della sirena che si ode nel finale è introdotto apposta, quasi a sottolineare la declinazione veristica e non più epica della storia, come un sottile velo di disillusione e un assaggio della mancanza di un lieto fine.
Con buona pace di tutti coloro che non lo amano, questo è Bruce Springsteen.