Uno degli argomenti preferiti dai militanti di ambo i fronti impegnati a fare propaganda camuffata da ragionamento logico è la nazionalità o la provenienza di chi, suo malgrado, propaga il contagio. Cioè di chi, in altre parole, senza saperlo è infettato dal covid e lo trasmette agli altri.
Con la mutevolezza tipica delle letture ideologiche è dunque tutto un leggere di percentuali di responsabilità. Secondo i casi, ai migranti va dal 2 al 10% della “colpa”, a chi torna da viaggi all’estero dal 20 al 40%.
Anche se le percentuali fossero vere, non si capisce cosa dimostrerebbero.
Il punto è arginare la pandemia o darne le “colpe”?
Come è stato ovunque e variamente spiegato, il virus (prescindiamo per favore dalla questione che si tratti di una banale influenza o di una pestilenza) si propaga in modo esponenziale, coll’aggravante di essere molto contagioso. Passare da un infetto a mille è insomma un attimo, indipendentremente da quanti siano e da dove provengano gli “untori”. Ne basta uno nel posto sbagliato per fare un disastro.
In quest’ottica migrante e vacanziero, viaggiante o stanziale stanno sullo stesso identico piano. Meglio cento appestati in un luogo poco frequentato che un appestato in un luogo affollato.
Non trovo affatto legittimante il fatto che gli uni siano meno “colpevoli” degli altri e viceversa.
Anzi, trovo pietoso l’uso dell’argomento covid per fare la difesa d’ufficio dell’immigrazione clandestina o della vacanza incosciente. Se c’è un’epidemia ovunque è necessario lo stesso rigore (o lo stesso lassismo). Pertanto avere sotto controllo chi va e chi viene, chiunque sia e da qualunque posto o con qualsiasi motivazione provenga, è indispensabile. Il resto è paraocchi o malafede.