di URANO CUPISTI
Anche Peter era un girovago. Dopo la Patagonia, continui scambi di idee sui viaggi da programmare. “Che ne dici della Groenlandia?“, mi chiede. “Conosco degli scienziati che, per pagarsi la spedizione, accettano viaggiatori come noi“. Un’esperienza irripetibile.
Avevo conosciuto Peter, un canadese girovago come me, in Patagonia. Da quell’incontro i continui contatti per scambiarci le idee sui viaggi da programmare.
“Urano, che ne dici della Groenlandia? Sono in contatto degli scienziati miei connazionali che, per pagarsi la spedizione, accettano il contributo di viaggiatori come noi”.
Armi e bagagli ed ero già sul volo per Copenaghen e poi proseguire alla volta di Kangerlussuaq, l’hub internazionale della Groenlandia. Era il luglio del ’97.
In tutto siamo dodici persone. Le formalità d’ingresso e, con un piccolo bus della vicina base americana, via verso il punto d’imbarco su un piccolo postale in un fiordo nella vicina costa occidentale.
Osservavo da bordo il litorale frastagliato diretti a nord, a Ilulissat, sede della spedizione, e il versante occidentale nella notte estiva che notte era solo per l’ora segnata sull’orologio, mentre superavamo il circolo polare artico. Saremmo rimasti ben diciotto giorni senza oscurità.
Guardavo la costa e immaginavo una terra sconfinata, intensa, con promesse di sogni ed emozioni da vivere profondamente.
Nonostante il sole ancora alto, Ilulissat si presentò dormiente. Sulla banchina, ad aspettarci, il corrispondente locale addetto alla logistica. Albergo, piccolo briefing per la conoscenza del programma del giorno dopo e via a nanna creando il buio nella stanza.
Il mattino seguente prima colazione groenlandese: aringa affumicata, pezzetti di altre qualità di pesce, uova da galline locali, bacon, latte, caffè e banane. Latte, caffè, bacon e banane? Latte e caffè che arrivavano quotidianamente dalla Danimarca, bacon e banane dalla base americana vicino all’aeroporto di Kangerlussuaq. Non mancava niente. Il vicino piccolo drugstore, negozio-farmacia, aveva sugli scaffali i Buondì Motta.
Il primo giorno fu impiegato per una specie di “defaticamento”. Recupero della diversità di fuso orario e l’abitudine al giorno sempre giorno.
Chiacchierate sulla banchina del porto tra il via vai dei pescatori Inuit. Un consiglio: se andrete da quelle parti non chiamate i groenlandesi esquimesi, si offendono.
Ilulissat è la terza città (forse è meglio dire paesotto) più grande della Groenlandia occidentale. È nota, turisticamente parlando, per il panorama che offre sulla Disco Bay e su un fiordo ghiacciato, appunto il fiordo di Ilullisat. Circa 4.500 abitanti e 3.500 cani da slitta. Quest’ultimi indispensabili per muoversi sul vicino ghiacciaio Lyngmarks Disko Island, la nostra meta per i tre giorni successivi.
Di buon mattino con tre Land Rover 4×4 via verso la base dei cani. L’obiettivo prefissato era di spingerci nel ghiacciaio per prelevare campioni d’acqua risalenti a milioni di anni fa, studiarli, capire la vita di quanto microscopicamente racchiudevano. Peter, in quella occasione e durante tutti i briefing, fu di grande aiuto nella traduzione da un inglese troppo tecnico per me.
La traversata sul ghiacciaio fino al punto prestabilito fu quanto di più incantato si potesse immaginare. Il silenzio squarciato dai fischi dgli Inuit rivolti ai cani e dal rumore delle slitte; uno spettacolo bianco acceso, formidabile, capace di emozionare oltre l’inverosimile.
Sapere di trovarsi a calpestare uno dei ghiacciai “vivi” della Terra. Contrariamente all’immagine comune che si ha, i ghiacciai si muovono e, anzi, la loro mobilità è un elemento distintivo che li caratterizza. La lingua di un ghiacciaio è in lento ma perenne movimento.
“La neve che precipita a quote o a latitudini elevate non può infiltrarsi nel terreno o scorrere via immediatamente; rimane, quindi, per tempi più o meno lunghi sotto forma di ghiaccio. Anche se prima o poi l’acqua si scioglierà per continuare il suo viaggio verso il mare, può rimanere trattenuta in un ghiacciaio per decine, centinaia o migliaia di anni. Qui nel Lyngmarks, studi scientifici datano le acque non meno di 2,5 milioni di anni fa”. A parlare il capo-spedizione rivolto soprattutto ai neofiti presenti.
Al di là dei rilievi scientifici fu lo scenario verso l’infinito del nulla a mettermi in ginocchio e desiderare che i momenti che stavo vivendo continuassero ancora.
Nei giorni successivi fu l’attacco dal mare al Fiordo di Ilulissat a impegnarci.
Andare là dove si staccano queste masse di ghiaccio, vere e proprie montagne, ed assistere alla loro lenta navigazione verso sud, verso le acque più calde di Terranova.
La fabbrica degli iceberg. Zigzagare con un piccolo peschereccio adibito per l’occasione a nave scientifica tra i numerosi iceberg della Disco Bay, candide sagome dalle mille interpretazioni. Visioni ed attimi che mandarono in cortocircuito tutte le mie conoscenze. Rimasi muto, quasi impalato, in mezzo a questi giganti.
E altro doveva arrivare.
(1/continua)