Semiserie reminiscenze enogastroletterarie a margine di un pomeriggio autunnale, nel profondo della muscosa campagna, vicino alla cucina economica…
Oggi pensavo, nella mezza luce del crepuscolo dicembrino, che si sono versati fiumi d’inchiostro per studiare lo scambio di amorosi sensi tra la letteratura e la gastronomia.
Ma che assai poco – mi pare – si è indagato sull’influenza, a mio giudizio profondissima, che i sapori abituali, gli usi della tavola domestica, le pietanze di casa e i profumi del desco possono esercitare sulla percezione, anzi il vero e proprio imprinting che si riporta addentrandosi nella lettura di un’opera letteraria. Soprattutto quando te ne fai avvolgere a tal punto da calarti nella vicenda fino ad avvertirne addirittura il lato, come dire, sensoriale.
Smetto di girarci attorno e vengo subito al sodo: se ripercorro con la mente le ore, i giorni e le notti trascorse in anni ormai lontani a compulsare certi fondamentali romanzi kafkiani, e in particolare Il Castello, così intriso di solitudini, di brume mitteleuropee, di villaggi rurali, di sentieri fangosi, di atmosfere cupe e grigie, di luoghi gelidi e di alberi spogli, tutti contesti contrappuntati, nella mia fantasia ovviamente, dal calore odoroso delle locande o di certe un po’ sordide osterie di campagna, ove gente taciturna e diffidente, spossata dal lavoro e a priori un po’ ostile, ti scruta mentre sorseggia pigramente birra tiepida da un boccale, ecco, se ripercorro tutto questo, il sapore che mi risale alla bocca, irresistibilmente, è quello della Pilsner Urquell. Non a caso la mia birra preferita.
Lo so, lo so che va P.U. bevuta fredda e da un bicchiere di vetro chiaro e sottile, per goderne i riflessi biondi e il colore mielato. Lo so che il marketing spinge per alimentarne la dimensione modaiola e giovanile, con (improbabile, concedetemelo) vocazione da happy hour, ma la sua pastosità quasi masticabile, quel profumo compatto e inconfondibile, i sentori intensi di orzo e il gusto robusto, rotondo ma severo, la sua densità viscosa mi riportano immediatamente alle atmosfere su cui ho tanto fantasticato allora, leggendo nel buio della Locanda del Ponte e dell’Albergo dei Signori.
Gli esperti storceranno, un po’ snobisticamente, il naso. La Urquell, diranno, è un’ottima birra industriale, va bene, ma fabbricata in milioni di pezzi e distribuita in tutto il mondo.
Ok. E allora? Mi è sempre piaciuta fin da tempi non sospetti, quando non capivo nulla di birra e nulla sapevo della sua storia antica, dei suoi natali ottocenteschi, della mistica che avvolge le sue acque e la città in cui nasce: ricordo solo la classica bottiglia con il sigillo rosso sul collo, la grafica asburgica dell’etichetta, il tappo a corona verde e soprattutto un aroma – luppolo, lievito, orzo tostato, un vago caramello – che su di me ha sempre lo stesso, piacevole impatto reminiscenziale dell’odore di casa quando torni dopo una lunga assenza, del profumo del sugo fatto dalla mamma la domenica mattina, dell’armadio della nonna con le lenzuola che sanno di spigo. E perfino dell’ardito abbinamento di questa birra con il Toblerone al latte messo a gelare fuori dalla finestra, in montagna, dopo lo sci, quando sete, stanchezza e calore domestico ti avvolgono come una coperta di lana secca e tu hai bisogno di rinfrescare dal di dentro la pelle che ti brucia dal di fuori.
Cosa c’entri tutto questo con il 169° anniversario della fondazione della Pilsner Urquell (che, ho scoperto, nacque infatti il 4 ottobre 1842 nella città boema di Pilsner), festeggiato giorni fa con un party all’hotel Savoy di Firenze, me lo sono chiesto a lungo tra un bicchiere e l’altro. Prima di capire che nemmeno la scelta dell’anniversario aveva un senso compiuto: volevano semplicemente festeggiare qualcosa e l’hanno fatto.
Così, poco fa, da solo nella casa deserta, sono sceso in cucina, con la stufa economica accesa e il cane che ci sonnecchiava vicino, ho preso una bottiglia di P.U. dal frigo, l’ho appoggiata sul vecchio tavolo di legno scuro, mi sono seduto e mentre ascoltavo non so che zuppa borbottare sul fuoco, l’ho stappata. Soffio leggero, profumo inconfondibile.
In campagna già c’ero. Mi è bastato stringere appena gli occhi nella luce fioca per illudermi di vedere l’agrimensore K., seduto di fronte a me, mentre sorseggia in silenzio la sua profumata, malinconica české pivo. Ancora una volta, Klamm può aspettare.