di URANO CUPISTI
A distanza d’un quarto di secolo, il nostro riapre il taccuino e ci racconta dell’Islanda com’era, prima della globalizzazione e della crisi economica, ma già con i giapponesi e una disciplina inflessibile.
“Velkominn” (ben arrivati): questo il saluto di benvenuto che Ólafur ci rivolse all’aeroporto Keflavik di Reykjavik.
Lui era un cittadino del mondo come il sottoscritto, conosciuto in una delle innumerevoli avventure alla ricerca di viaggi-scoperta tanto del passato come del presente: in pratica, viaggiatori che cercano.
Parlò al plurale perchè in quel giugno del 1996 mi accompagnava mia figlia Ilaria, allora ventiseienne. Niente valige, ma solo zaini pratici e capienti.
Ólafur aveva caldeggiato in diverse occasioni l’esplorazione dell’Isola di Ghiaccio, proponendosi come organizzatore di un tour senza pensieri alla maniera islandese, cioè calandosi nella realtà di quel popolo, vivendo per un mese come e insieme a loro, accettando le loro usanze e godendo al meglio di quanto quel paese sa dare.
Il primo impatto, fuori dal già modernissimo aeroporto, fu con la corsa di alcuni piccoli cavalli, a metà tra l’equino tradizionale e il pony, liberi di galoppare in una prateria, anzi in una landa senza confini.
Reykjavik ci apparve con le sue abitazioni piuttosto basse, con i tetti coloratissimi e un piccolo centro storico simile a tante altre cittadine scandinave. Al momento del viaggio aveva poco più di 120.000 abitanti (un terzo del totale islandese) ed era sì “europea”, ma forse ancora un po’ periferica: basti pensare che le prime banconote dell’euro furono stampate con una cartina senza l’Islanda.
Gli appunti che mi ero portato dall’Italia descrivevano Reykiavik come “impersonale, asettica, che lascia freddo l’osservatore”. A noi sembrò tutt’altro: viva, moderna nel modo di vivere, rispettosa della natura. Già allora si pagava tutto con le carte di credito e c’erano terminali per internet anche nei paesini più sperduti. E poi tanti giovani che facevano la spola con la vicina (si fa per dire) Norvegia per frequentare scuole e università. E la notte? Decisamente intensa nei pub del centro.
La teorica preoccupazione di trovarsi su una roccia in mezzo all’Atlantico del Nord, ai confini del Circolo Polare Artico, si dissolse subito, passeggiando per le vie in mezzo alla gente o nei pressi del laghetto Tjörn, dove albergano tutto l’anno colonie di uccelli acquatici insieme a cigni e anatre. Anche il Palazzo Presidenziale, di basalto scuro ravvivate da finestre bianche, inserito in quel contesto mostrò un suo perché. Senza dimenticare la cupola trasparente sopra i grandi serbatoi di acqua termale, fonte di calore distribuita in tutte le case, e quel ristorante girevole, il Perlan (La Perla), dove assaggiare la cucina islandese con vista a 360 gradi e in lontananza la moderna cattedrale luterana, la Hallgrimskirkja, che s’innalza fino a 75 metri d’altezza.
I tre giorni passati a Reykjavik furono quanto di meglio per inserirsi in un mondo in continua evoluzione. E quei palazzi in miniatura del Settecento e dell’Ottocento a ricordare la testimonianza del passato. Reykjavik come ponte tra l’Europa e le Americhe, come del resto avevano capito i Vichinghi. Non a caso il suffisso Vik è parte di molti toponimi, dalla stessa capitale fino ad altre cittadine della costa, come Húsavik. E della nostra guest-house “Vikjng” con le finestre bianche bordate di azzurro dove alloggiammo, ne vogliamo parlare?
A 5 minuti a piedi dalla strada dello shopping, Lauagavegur, ci mise a disposizione una cucina e un terrazzino dove con Ólafur passammo una memorabile serata-barbecue a base di pesce, crostacei e carne di balena acquistati al mercato ittico centrale. Il tutto annaffiato da birra Viking (aridaje…) di Akureyri, acquistata in un Vínbúðin, lo spaccio statale per la vendita degli alcolici. Ricordo che Ólafur ci fece entrare nel negozio uno alla volta comprando non più di tre bottiglie a testa, per non essere “segnalati”.
Il quarto giorno partimmo per il primo tour esplorativo intorno alla capitale, quello che nei depliant turistici viene indicato come il Golden Circle. Ólafur ci venne a prelevare di buon’ora con un Toyota 4×4. Ilaria ed io ci sentivamo come Marion Ravenwood e Indiana Jones, non però alla ricerca dell’arca perduta ma dei tesori di Iceland.
Fu così che vedemmo le imponenti cascate di Gulfoss, che nelle belle giornate di sole hanno un effetto davvero notevole, poi il fiume Hvítá che si getta con un doppio salto nel canyon sottostante nella valle di Huakadalur e le sorgenti calde dei geiser, nella medesima valle. Due i più conosciuti: il Geysir, che erutta getti d’acqua fino agli ottanta metri di altezza, e il più piccolo Strokkur, che erutta ogni cinque minuti. Mentre osservavamo, la solita truppa di giapponesi lanciava sassi all’interno del “buco”, molto probabilmente pensando di accelerare l’eruzione. Un ranger in borghese, dopo aver fatto notare loro quanto scritto su un ben visibile cartellone in diverse lingue, vergò ai nipponici dei bei verbali e le foto le fece lui a loro: quelle segnaletiche. Ólafur ci disse che simili gesti avrebbero potuto portare anche alla espulsione dal paese.
Il parco nazionale di Thingvellir è dove fino al 1840 venivano tenute le sedute dell’Althing, il parlamento islandese. È un sito molto interessante dal punto di vista naturalistico. Trovarsi di fronte la spaccatura tra le placche continentali che si perde all’orizzonte ci fece riflettere sulla fragilità del pianeta.
“Siete pronti per un bagno?” urlò a un certo punto Ólafur.
Pensavamo di raggiungere una fonte d’acqua calda e invece ci immergemmo in quellaa gelida e cristallina di un lago all’interno della faglia. “Siamo sopra la “cattedrale”, la sezione più grande della Fessura di Silfra, dove a 100 metri di profondità c’è l’inizio e la fine di due continenti: la placca nordamericana e quella eurasiatica che si allontanano tra loro per circa 2 cm all’anno”.
In seguito raggiungemmo la cascata a tenda Skogafoss, che precipita in un contesto di colline verdi vicine al mare, e il pittoresco paesino di Vik, con la sua spiaggia vulcanica nerissima conosciuta anche come la patria delle “pulcinelle di mare”. Lì salimmo con il pick up sulla cima della scogliera su una stradina accidentata. Viste da vicino le pulcinelle sono ben riconoscibili, con i caratteristici colori rosso, giallo e blu e il piumaggio bianco e nero. Costupì un po’ sapere come questi animali, che troviamo in ogni angolo d’Islanda immortalati su souvenir, cartoline, peluche, tazze e magneti, siano in realtà per gli islandesi un cibo molto diffuso.
Ma quella volta non avemmo il coraggio di assaggiarle…
(continua).