di URANO CUPISTI
Certe sfide non si vincono da soli e vanno organizzate nei minimi dettagli. Accadde nel 2005, quando per la seconda volta mi trovai a Ushuaia, praticamente alla fine del mondo (o all’inizio di tutto). E da lì Oltre Capo Horne e le Shetland del Sud.

 

Ero arrivato là perché sapevo di una “spedizione in Antartide” organizzata da ricercatori legati al National Geographic che sarebbe partita proprio da Ushuaia alla volta della Penisola Antartica.
Non il solito viaggio semi-turistico, diventato nel tempo un po’ di moda, ma una vera spedizione con tanto di capo-spedizione (Jorn Henriksen), la sua vice (Anja Fleig), un ornitologo (John Gale), un geologo (Brian Parson), due storici naturalisti (Scobie Pye e Howie Owen), uno storico (John Dyson), un biologo marino (Inigo Everson) e una esperta di balene (Juliet Shrimpton).
Ci ritrovammo nella Hall dell’Hotel Antartida Argentina ad Ushuaia per conoscerci, scambiarci un po’ d’idee, capire le motivazioni di ciascuno di noi.
Un mix di viaggiatori provenienti da tutto il mondo: Usa, Gran Bretagna, Polonia, Giappone, Germania, Canada, Australia e l’unico italiano: io. Poi la conoscenza dei 35 membri dell’equipaggio della MV Polar Star, la nave oceanica che sarebbe stata la nostra casa per dieci giorni, presentati dal captain norvegese Asbjorn Endresen.
Già la motonave Polar Star di circa 5.000 tonnellate, lunga 87 metri, doppia carena, 11 nodi la velocità, ben rodata per viaggi tra i ghiacci e particolarmente agile per percorrere gli stretti fiordi antartici.
Capo Horn, il Canal Drake e le Isole Shetland del Sud.
Era il mattino del lunedì 10 gennaio quando, armi e bagagli, raggiunsi la Polar Star attraccata al molo riservato alle navi oceanografiche. Pratiche d’imbarco lunghe, complicate, macchinose e lente (con la polizia di frontiera argentina serve calma, autocontrollo e sangue freddo antartico).
Briefing nel primo pomeriggio a bordo: “È strano pensare che siamo destinati a una parte del mondo senza città, senza governi, senza persone e nemmeno un filo d’erba. E non abbiamo nemmeno bisogno di un passaporto per sbarcare lì. Ci stiamo dirigendo verso il grande continente bianco, la terra del grande ghiaccio”. Così iniziò a parlare Jorn Henriksen, il norvegese capo-spedizione proveniente da Tromsø, la città detta “porta dell’artico”.
Alle 7 di sera furono mollati gli ormeggi, i motori iniziarono a brontolare sotto i nostri piedi e la Polar Star si allontanò dal molo di Ushuaia navigando nel Canal Beagle. A sinistra sfilarono le montagne innevate della Terra del Fuoco argentina e a destra i terreni selvaggi e accidentati di quella cilena.
Navigazione tranquilla, temperatura mite per quelle latitudini nel mese di gennaio (circa 7°), cielo stellato con la famosa e appariscente Croce del Sud ben in evidenza e sotto la sua luce racconti a non finire.
Qualcuno chiese al responsabile di bordo David, una specie di hotel manager, di poter essere svegliato di buonora . “Non occorre – disse David con un mezzo sorriso – ci penserà lui, Drake
Nelle nostre informazioni sull’equipaggio non risultava alcun Drake. Una dimenticanza? Forse una specie di valet preposto alla sveglia mattutina?
Ce ne accorgemmo all’alba quando una mega rollata dette la sveglia a tutti. Era il signor Drake, al secolo il Canal Drake, che si presentò.
Avevamo doppiato Capo Horne e iniziate le circa 48 ore di navigazione “da inferno” con inclinazioni dai 16° ai 19° e 20° (misurati sul ponte).
La Polar Star s’impennava, si sollevava per poi ricadere tra le onde sbatacchiando quasi a scrollarsi di dosso la propria agitazione. E gli albatros a farci compagnia.
In pochi superstiti, incerottati con i transcop forniti dal medico di bordo (cerotti di scopolamina per malanni da movimento), nel ponte di comando insieme a John Gale, l’ornitologo, a farci raccontare le storie miste a leggende degli albatros. “Siamo alla latitudine degli Albatros” gridò John Gale.
Uccelli fantastici: volteggiano nell’aria, controvento quasi a sfidarlo, e giù a lambire le onde. Con la loro enorme apertura alare, offrirono uno spettacolo incredibile insieme alle procellarie dalle sopracciglia nere.
Due giorni di navigazione dove incontrammo anche tre balene ben descritte da Juliet, la giovane esperta inglese.
Interessante fu il briefing con Brian Parsons, statunitense e Scobie Pye, nativo della Tasmania in carico al Natural Geographic, su ciò che rappresenta il Drake Passage e le Isole Shetland del Sud.
Il primo, luogo d’incontro dei due oceani, l’Atlantico e il Pacifico, situati ad altezze diverse che creano di fatto le correnti di aria e marine che regolano la meteorologia del mondo.
Le seconde, le isole Shetland del Sud, vero approdo dopo il faticoso e tortuoso attraversamento del canale e barriera di protezione per le coste della Penisola Antartica.
Nel pomeriggio del secondo giorno di “baldoria marina”, tutti, o quasi, riuniti a vedere le slide e filmati. Al buio, i filmati girati nel Canal Drake, oscillavano allo stesso ritmo della realtà, quasi un gioco per ingannare il tempo.
Poi improvvisamente, alla sera, la calma incredibile. Le ombre delle montagne delle Smith Islands sulla destra, il Bransfield Strait sulla sinistra e le maestose isole Shetland del Sud.
Un saluto da lontano e “ci conosceremo meglio durante il ritorno”.
Benvenuti nella Penisola Antartica.

(1.continua)