Da buon cronista sono abituato a tenere i piedi per terra. E a sapere che i numeri, prima di essere riportati, andrebbero letti e, auspicabilmente, saputi leggere. Cioè capiti nella loro scaturigine.
Il rischio, sennò, è che i numeri possano dire tutto ed il suo esatto contrario, a seconda di come li interpreti.
Ma un numero, appunto, per essere interpretato, prima va saputo leggere.
E saputo leggere vuol dire anche farsi delle domande, ad esempio, su chi, come e perchè quel numero (dando per scontato che in sè sia giusto, il che non sempre accade) lo fornisce e lo evoca. O capire se esso indica qualcosa di fisso o marca una tendenza.
Per questo, ormai da tempo, mi sono abituato a dare retta ai soli numeri che rappresentano fatti oggettivi e viceversa: morti, tamponi effettuati, numero di ricoverati, etc e l’eventuale rapporto tra loro.
Il rapporto tra numeri/fatti non oggettivi o quello che serve a sviluppare modelli teorici (buoni quindi per i teoremi, non per raffigurare la realtà) mi interessa poco.
Mi irrita invece molto chi ne fa un uso pratico.