Alla degustazione organizzata al Colle dalle Donne del Vino della Toscana si è parlato del futuro dei vini dolci, prodotti di bel nome ma scarso mercato. Soluzioni (provocazioni a parte)? Poche.

 

Esistono forti similitudini tra il mercato dell’extravergine di qualità e quello dei vini dolci di pregio. Due settori in crisi cronica. Ed altrettanto forti ne esistono tra quello dell’olio d’oliva di bassa lega e dei vini liquorosi da gdo, settori invece commercialmente assai floridi grazie ai consumi di massa, ai prezzi bassi (l’ordine dei due fattori sceglietelo voi) e agli equivoci che li circondano.

La comunicazione tradizionale, del resto, non aiuta: a sostegno del primo si abusa, sbagliando, di termini tanto stucchevoli quanto obsoleti (“eccellenze” etc) e perciò, spesso, controproducenti. Per criticare il secondo si ricorre a un moralismo un po’ fastidioso (la contrapposizione quasi etica tra prodotti virtuosi e prodotti-schifezza) che finisce per offendere il consumatore anziché educarlo e perciò si ritorce contro quelle produzioni di qualità di cui, invece, si vorrebbe incentivare un più ampio consumo, quello da cui in definitiva dipendono poi la redditività ed ergo la sopravvivenza dei produttori che lo invocano.

Un nodo di cui si è parlato, non a caso, anche al recente Buy Food della Regione Toscana per la valorizzazione del made in Tuscany agroalimentare. Ma ovunque le risposte latitano.

C’è inoltre la contraddizione dei numeri: di grandi vini dolci e di grandi extravergine oggi non ci sono né i volumi, né la possibilità di svilupparli fino a coprire la potenziale domanda, almeno nella misura e nei tempi in cui di questa sarebbe necessario l’incremento.

Tutti cortocircuiti che mi sono venuti subito in mente partecipando alla degustazione (sette vinsanto di età e provenienza diverse, due passiti, un Occhio di Pernice, un Aleatico e un Moscadello: l’elenco * è in calce) organizzata alla Fattoria del Colle di Trequanda dalle Donne del Vino della Toscana e dalla loro presidente Donatella Cinelli Colombini, sotto la guida di un palato autorevole come Gianni Fabrizio.

Al di là dell’indubbia qualità delle dodici bottiglie proposte (di cui riferiremo in altra sede), incombeva infatti una cappa opprimente di natura economica: grandi vini, certo, pieni di poesia e tradizione, ma difficili e costosi a prodursi. Che non si vendono, oltretutto. E che, se si vendono, quasi mai si ripagano. Che inoltre si abbinano con troppa difficoltà e a pietanze desuete, quindi restano ostici da diffondere e da promuovere. Occorre perciò, è stato ripetuto, trovare nuovi mercati di sbocco e adeguate strategie di promozione. Superando pure l’equivoco, molto rimarcato ed in effetti pernicioso, per il quale oggi, sotto il nome “vinsanto”, la legge consente di commercializzare sia il vinsanto vero (ossia vino a tutti gli effetti, ricavato dalla spremitura dell’uva messa ad appassire sui graticci), sia il vinsanto “liquoroso”, ossia un vino fortificato con aggiunta di alcool, di qualità andante e di costi infimi.

E’ qui che mi è scattata la prima associazione di idee: esattamente come a parole tutti apprezzano i nettari e le “eccellenze”, ma poi in gdo comprano un liquoroso da due soldi per inzuppare i cantuccini, allo stesso modo tutti si dichiarano gourmet, ma poi a casa condiscono l’insalata con olii tremendi, extravergine o meno, che, trovati sugli scaffali a pochi euro, tradiscono al gusto e all’olfatto le loro misere virtù. Donde l’inquietante interrogativo: come posso convincere chi non distingue il buono dal cattivo nemmeno mettendolo in bocca a comprare, ma pagandolo il quintuplo, un prodotto infinitamente migliore?

Poi mi sono fatto anche due conti.

Salvo errori, la somma delle bottiglie di vino dolce prodotte dalle dodici cantine presenti al Colle non superava i 50mila pezzi (tra 0,375 e 0,500 ml), quasi 30mila dei quali divisi oltretutto tra due grandi aziende, con l’estremo inferiore delle nemmeno 400 bottiglie del Passito da Traminer aromatico della padrona di casa.

In pratica, un’inezia. E’stato infatti riconosciuto che manca la massa critica per fare mercato. E mancherebbe anche se ai magnifici dodici riuniti a Trequanda si aggiungessero le bottiglie che, ma sempre a lotti di poche migliaia, vengono prodotte in Toscana da decine di altre cantine.

C’è poi anche qualche contraddizione sui prezzi: per i vini assaggiati a Trequanda si andava da 18 a 86 euro a bottiglia, ossia dal molto poco al parecchio, se si vuole ragionare in termini strettamente commerciali senza addentrarsi in ragionamenti economico-qualitativi di indubbia rilevanza, ma che sfuggono al 90% dei potenziali consumatori.

La sensazione finale è che, fatte le debite eccezioni, rebus sic stantibus per vinsanto e vini dolci toscani di pregio possa esserci, proprio come per l’extravergine, solo un futuro da nicchia estrema, territorio di caccia per appassionati che però, pur disposti a svenarsi, non daranno mai un reale contributo ai bilanci aziendali.

Meglio allora, penso, rassegnarsi all’idea del vinsanto-gadget, del prodotto da complemento: un prodotto raro non sottratto al mercato ma destinato comunque a fungere da contorno, da impreziosimento, da chicca, da omaggio, da oggetto regalo. Tutte funzioni ideali per dare un reale contributo di immagine, e non certo di utili, all’azienda produttrice e agli altri vini della gamma aziendale.

Forse, anzi, proprio questa potrebbe essere la chiave: accettare (e lavorare nella direzione) di dare al vinsanto un esplicito ruolo “di rappresentanza”. Come in fondo era una volta, quando la produzione era per uso di casa o di cortesia.

Perché se è vero che in teoria il consumo potrebbe moltiplicarsi approcciando nuove piazze e strategie (ad esempio promuovendo l’abbinamento con le “dolci” cucine orientali o perfino inseguendo abitudini di consumo giovanili e meno impegnative, tipo i fast food, come è stato provocatoriamente proposto qui), è vero anche che ciò richiederebbe volumi oggi impensabili e che, in mancanza di prodotto disponibile, gli spazi vacanti sarebbero facilmente occupati dai liquorosi a basso prezzo, già destinati per natura ai consumatori poco avveduti che popolano quei mercati.

Proprio come accade per l’olio extravergine di qualità, insomma.

Alla fine, quindi, la soluzione può davvero essere palingenetica, o quasi: il ritorno dei vinsanti alle loro funzioni originarie di “testimonial” di chi li produce.

In pratica, in parole odierne, dovrebbero passare da essere solo un costo a perdere a un investimento consapevole: un investimento in marketing.

 

[* Ecco i vini assaggiati alla Fattoria del Colle il 28 ottobre scorso, di cui prossimamente ci occuperemo:

1 Fattoria Aldobrandesca Aleatico Sovana DOC Superiore 2022

2 Fattoria Le Pupille Bianco Passito Solalto IGT Toscana 2019

3 Banfi Florus Moscadello di Montalcino Vendemmia Tardiva DOC 2019

4 Donatella Cinelli Colombini Passito di Traminer aromatico IGT Toscana 2018

5 Dei Vin Santo di Montepulciano DOC 2016

6 Castello di Querceto Vin Santo del Chianti Classico DOC 2018

7 Badia a Coltibuono Vin Santo del Chianti Classico DOC 2013

8 Tenuta Il Corno Vin Santo del Chianti DOC 2004

9 Castello Sonnino Red Label Vin Santo del Chianti DOC 2015

10 Capezzana Vin Santo di Carmignano DOC Riserva 2016

11 Tenuta di Artimino Vin Santo di Carmignano DOC Occhio di Pernice 2012

12 Villa di Vetrice Vin Santo del Chianti Rufina DOC 2005]