Udite udite: dopo esserci pianti addosso per anni ed essersi fatti bacchettare dagli eurocrati perchè le dimensioni medie delle nostre aziende agricole sono di 5 ettari, in pratica quelle di un orto, mentre la media Ue (considerata la minima affinchè l’impresa sia “economica”) è almeno quadrupla, adesso si scopre che il futuro della campagna italiana è affidato agli agricoltori dilettanti, ai dopolavoristi, agli hobbisti. Insomma all’agricoltura amatoriale praticata da chi, invece di andare ai giardinetti, si dedica con amore al mezzo ettaro attorno casa. Lo dice nientepopodimeno che Nomisma, l’istituto bolognese che, in collaborazione con la rivista “Vita in Campagna”, presenterà domani alla Fieragricola veronese la prima ricerca mai condotta in Italia sul fenomeno.
Non sono agricoltori in senso stretto, cioè gente che sui campi “ci campa”, come si usa dire. Ma non sono nemmeno gli agricoltori “part time” di cui tanto spesso ci parla l’Istat e che, pur dedicando all’attività meno del 50% del loro tempo-lavoro, costituiscono comunque e a tutti gli effetti un’impresa agraria (la quale, specifica anzi l’istituto, nel nostro paese è svolta in questa forma mezzingola nel 70% dei casi).
No, sono proprio i dilettanti puri, gli amanti tout court della vita bucolica (visto l’impegno ridotto, è difficile definirla georgica), gli agricoltori “amatoriale” ribattezzati, con un fastidioso anglicismo, hobbyfarmer. Nomisma li elegge addirittura a “nuova figura” del panorama agricolo nazionale e perfino “nuovi custodi” degli spazi rurali. Mah…
Andando a spulciare la ricerca si scopre così che i nuovi amanti della zappa spuntano come funghi da tutte le categorie professionali (dipendenti pubblici, medici, avvocati, dirigenti, operai) e che sono finora sfuggiti a qualsiasi censimento, visto che il 90% di loro non sarebbe mai stato visitato dall’Istat in occasione delle sue periodiche indagini. E’ anzi dalle anomalie emerse dai censimenti e dal confronto tra gli stessi che si è potuto verificare quanto consistente fosse il peso dell’hobbyfarming sull’agricoltura nazionale.
Tra il 1990 e il 2000 sono risultati infatti “spariti” nel nostro paese due milioni di ettari coltivati e ben 430.000 aziende agricole ma, ciononostante, in Italia la dimensione media dell’azienda agraria è rimasta di miseri 5 ettari. Segno evidente che nel periodo interessato non è avvenuto alcun accorpamento tra i terreni formalmente e ufficialmente “usciti” dalla produzione. Non potendo però essere fisicamente spariti e, come giustamente sottolinea l’indagine, non potendosi nemmeno pensare che in un solo decennio una superficie così enorme sia stata del tutto abbandonata o, peggio, cementificata, che fine hanno fatto allora, ci si è chiesto, tutti quei campi? Anche perchè, secondo un’altra rilevazione Ue, la nostra perdita effettiva di superfici agricole nel decennio non aveva superato i 143.000 ettari.
La risposta, dice Nomisma, è che quegli ettari ha solo cambiato “padrone”, passando da un agricoltore professionale o part time a un “hobbista” che li destina a frutteto, orto, vigna, piccoli allevamenti, per il comprensibile piacere di produrre la “propria” verdura e di disporre di qualche bontà sott’olio da regalare ad amici e parenti. Il tutto su una superficie che di rado, bosco compreso, supera 1,3 ettari di estensione.
E fin qui nulla da dire: una notizia curiosa, in bilico tra economia e costume, tra nuove tendenze sociali e usi alternativi del tempo libero.
Più inquietante invece quanto afferrmato oltre, quando Nomisma dice che si tratta di “terreni gestiti secondo logiche rivolte soprattutto al mantenimento ambientale e paesaggistico e più in generale alla tuteta territoriale. Si tratta di benefici (o, più tecnicamente, di “esternalità) – continua la nota – sottostimati o addirittura non riconosciuti dal punto di vista collettivo, vista la mancanza di rilevazioni ufficiali, che però permettono, assieme al contributo preponderante dell’attività propriamente agricola, una conservazione degli spazi rurali i cui vantaggi finiscono con ilo ricadere sull’intera popolazione”.
Ora, diciamo noi: ben vengano gli appassionati, i nonni negli orti, il recupero dei terreni marginali e tutto quello che vogliamo. Ma affidare a bonari bopolavoristi, forse nemmeno troppo affidabili sotto il profilo agronomico e della gestione dei terreni, il ruolo di salvatori della patria, mentre l’agricoltura “vera” affoga in una quasi irreversibile crisi di debiti e di mancanza di prospettive appare al tempo stesso demagogico, superficiale e anche un po’ irritante per coloro che sui campi ci stanno per davvero e forse con più passione degli “hobbyfarmer”. Per non parlare di presunte vocazioni ambientaliste e paesaggistiche che, baracche di latta e recinti di rete rugginosa alla mano, non ci sembra proprio il caso di evocare.