Tutti parlano di “turismo di prossimità” e di “destinazione Italia” in vista delle vacanze estive (e non). E’ un concetto relativo e un po’ eufemistico che non capisco. Secondo me andrà in un altro modo e, soprattutto, secondo logiche diverse.
Da bambino le vacanze le passavo in gran parte al mare, ma ne ho trascorse di indimenticabili e interminabili anche a Chiusdino, paesino sulle Colline Metallifere senesi che molti conoscono per dominare dall’alto l’abbazia di San Galgano e, ahinoi, soprattutto il Mulino Bianco della pubblicità.
Lì, tutte le estati, incontravo un amico che alloggiava dai nonni e veniva da Buonconvento, un paese della Valdarbia che dista da Chiusdino una cinquantina di km, trenta in linea d’aria. Insomma un tiro di schioppo secondo i parametri di oggi e anche di allora.
All’epoca infatti non capivo, nella mia ingenuità, come si potesse chiamare vacanza lasciare un luogo minuscolo per andare a passare tre mesi in un altro, vicino e praticamente uguale (da bambini la logistica, la socioeconomia, il clima sono variabili trascurabili, anzi inesistenti).
Oggi invece, col coronavirus in circolazione e il lockdown in vigore, si direbbe che il suo era un “turismo di prossimità“, ciò che farebbe del mio amico un vacanziere lungimirante e à la page.
Leggo infatti da più parti, come se fosse assodato, che a causa della crisi e delle paure scatenate da Covid-19 il futuro almeno immediato del turismo sarà appunto “di prossimità”, cioè verso destinazioni molto vicine a quelle di partenza e, nel nostro caso, del tutto o prevalentemente in Italia.
E io, nuovamente, mi trovo a non capire.
O almeno – senza entrare nel paradosso di chi sceglie o rifiuta la meta dei propri viaggi di piacere in base al fatto che essa sia troppo vicina o troppo lontana – credo che sul punto si debba fare chiarezza: prossimità è del resto un termine relativo, non dà una misura. Che vuol dire? Cosa è prossimo e cosa no? E perchè non allontanarsi sarebbe più sicuro del contrario?
Cioè: perchè io che vivo a Siena dovrei scegliere di andare in vacanza – tanto per fare degli esempi a caso – in Alto Adige o in Sicilia, anzichè a Londra o in India? O per “prossimità” si intendono luoghi ancora più vicini, tipo nella stessa regione di residenza? O addirittura nella stessa provincia, come quelli del mio amico d’infanzia?
I conti non tornano.
Se il fattore determinante della scelta della destinazione è evitare i rischi di contagio, a me pare che – se non in presenza di dati specifici acclarati – non ci sia differenza tra trascorrere le ferie nella campagna della Cornovaglia o del Massachusetts o trascorrerle in Chianti o in Salento.
Se il fattore determinante sono i limiti alla mobilità, ho forti dubbi che si possa chiamare “viaggiare” o “andare in vacanza” fare una gita fuori porta: basta dire che per quest’anno al massimo sono possibili solo scampagnate o viaggi brevissimi di un giorno o due, evitando gli eufemismi e il falso mercato che essi generano e finirla lì.
Se il fattore determinante è che dall’Italia in teoria si può uscire, ma sono i paesi stranieri che, sempre per la questione del virus, in pratica non ci fanno entrare, la questione si riduce geograficamente, ma non muta: ha senso che da regioni e città più contagiate o a rischio si possa andare in altre meno contagiate senza rischiare di esportare l’epidemia in aree esenti o quasi (la direzione contraria è ovviamente esclusa)?
Se il fattore determinante è che, sempre per le solite ragioni, dall’estero nessuno verrà in Italia e che pertanto anche l’incoming nelle nostre località turistiche sarà solo di cittadini italiani, valgono le considerazioni di cui sopra.
Insomma, in che consiste e qual è allora il senso di questa “prossimità“?
La risposta ha riflessi importanti sotto il profilo economico.
Stampa, operatori, enti di promozione, governo, tutti spingono e danno per acquisita per il turismo italiano dell’estate 2020 la “destinazione Italia“.
Ma, a parte e al di là dei dubbi già espressi, in quali condizioni e con quali limiti la destinazione più prossima, cioè il paese-Italia, aspetterà gli italiani? Ristoranti con separè e mascherine, spiagge coi box di plexiglas? A parità di norme di sicurezza e di diffusione del contagio, che differenza c’è tra andare al mare più vicino o a quello più lontano? Fare 40 km o 400?
Credo sia un mio grave limite ma io, ancora una volta, non capisco.
A me pare che, nel mondo globalizzato, nulla sia ormai “prossimo” o “remoto“. E che la mutevolezza del quadro generale prodotto da una pandemia misteriosa e aggressiva lasci poco o punto spazio alle logiche, alle regole, ai confini amministrativi e di stato, alle politiche nazionali. Tutto è ovunque relativo e interdipendente.
E quindi mi permetto di dubitare sia sulla bontà delle strategie di rilancio turistico in atto, sia sulla più ampia idea che le partorisce, sia sugli slogan che l’accompagnano. Penso che più dell’opportunità o degli obblighi di “prossimità”, a frenare il turismo quest’anno (e in futuro, chissà) saranno, oltre alla comprensibile paura, i disagi, la scarsa godibilità e le difficoltà economiche legate al calo dei redditi e al parallelo aumento dei prezzi dovuto alla contrazione dell’offerta e perciò all’aumento dei costi unitari.
Ovviamente sono pronto a ricredermi al cospetto di argomenti ragionevoli.