Quando trema la terra sotto i piedi, chiunque è preso dall’ansia e scambia il vicino per un possibile appiglio o per un potenziale concorrente. E’ quanto accade ai giornalisti, spinti dalla crisi ad esaurire in liti da cortile questioni per cui andrebbe sanzionato il vero responsabile. Che è sotto gli occhi di tutti, ma che in pochi mettono a fuoco.

Che siamo al fondo del barile lo dimostrano i fatti e ci sarebbe poco da aggiungere.
Senonchè è interessante, per comprendere il clima da ultima spiaggia che si respira nel mondo del nostro giornalismo, leggere i differenti punti di vista. Quelli di chi, pur condividendo la professione e quindi, in sostanza, il destino, si trova su posizioni tanto diverse da apparire a volte contrapposte.
Il risultato è che il dibattito diventa claustrofobico, perdendo di vista il quadro generale.
Un quadro generale i cui responsabili sono ben chiari, ma che rischiano di restare sfuocati nel fuoco incrociato dei dettagli.
Trovo ad esempio su una pagina FB, a proposito delle rivendicazioni dei precari (nome improprio sotto il quale molti classificano anche i liberi professionisti e i co.co.pro.), il seguente commento del collega contrattualizzato Carlo Chianura:
Leggo in giro per il web cose che voi umani… L’affermazione dei diritti dei precari passa per la riduzione dei diritti dei “garantiti”? Ma davvero? Cioé adesso il posto fisso equivale al distintivo di “garantito”? E quindi chi ha avuto la possibilità di essere assunto deve ora vergognarsi perché una classe di editori-straccioni e finto progressisti assume in nero e paga quattro soldi una generazione di sfruttati? Ma davvero questa è la strada? Scusate ma io non ci sto: la strada è la solidarietà tra le generazioni, non la guerra tra giovani e vecchi. La strada è l’allargamento dei diritti, non la compressione di chi è venuto prima e legittimamente vuole mantenere i suoi diritti. Mi sembra di sognare, davvero, care colleghe e cari colleghi. Mi sembra di essere tornati ai tempi precedenti alla Rivoluzione industriale, quando ancora non esisteva nemmeno la classe operaia. Io non ci sto. La strada è quella di obbligare gli editori, ognuno per la sua parte, a RISPETTARE LA LEGGE: basterebbe questo. Niente finti rapporti di lavoro subordinato travestiti da contratti autonomi; niente presenze indebite in redazione di chi può e deve solo collaborare da fuori; niente collaborazioni se non pagati il giusto. Siamo tutti chiamati in causa, anche chi deve avere il coraggio di rifiutare di lavorare a 5 euro al pezzo. E la demagogia lasciamola pure a quanti fingono oggi di non sapere quello che hanno combinato in questi anni“.
Gli risponde la collega freelance Francesca Tarissi. Così:
Solidarietà è il termine che salta fuori ogni qual volta si tocca l’argomento ‘diritti degli assunti‘. Mi chiedo però perché, in tanti anni di lavoro col tuo gruppo editoriale, non l’ho sentita tirare in ballo per organizzare uno sciopero a favore dei collaboratori sfruttati, contro le decurtazioni ai loro compensi decise unilateralmente, in favore dei contratti co.co.co che nella stragrande maggioranza dei casi, governo dopo governo, non sono mai arrivati. Proprio chi ha i diritti può esercitarli in favore di chi non li ha. La solidarietà è questa. Io per difendere i vostri di diritti, ho partecipato allo sciopero delle firme e il mio servizio apparve senza il mio nome (e tu sai bene che per un freelance il nome è importante). Non mi risulta sia poi accaduto qualcosa all’inverso… Sono assolutamente d’accordo con te quando parli di editori che fanno le nozze con i fichi secchi e ‘colleghi’ che accettano 5 euro e anche meno pur di vedersi pubblicare da qualche parte. Ma lo sfruttamento non parte solo dai vertici ma anche dalle redazioni e da quei capiredattori, capiservizio e persino redattori contenti di avere a propria disposizione una pletora di collaboratori malpagati e precari a vita che altrimenti non si potrebbero permettere“.
Tutti argomenti abbastanza condivisibili, in sè. Ma che confusione, mamma mia.
Assunti che non capiscono che la saldezza del proprio posto di lavoro dipende ormai dalla quantità e dalla qualità degli autonomi che producono ciò che a loro, salvo rare eccezioni, è chiesto solo di commissionare, coordinare e impaginare. Autonomi che vorrebbero rivalersi sui contrattualizzati vagheggiando spalmature sovietiche dei compensi tra le diverse categorie. Collaboratori che alimentano la guerra fra poveri. Freelance nella vana attesa di una legittimazione e di un riconoscimento che non ci saranno mai. Questioni di ruvida sostanza sindacale che si spostano sullo stucchevole e moralistico terreno teorico della “solidarietà”.
Eppure la faccenda è semplicissima nella sua drammaticità.
Ci sono due tipologie contrattualmente diverse di giornalisti: assunti e autonomi. Differenti in tutto, proprio in tutto, tranne l’iscrizione all’Ordine e i generici obblighi deontologici. Talmente differenti da essere, per certi aspetti, quasi controparti.
Ma c’è un sindacato sedicente unitario che da sempre si occupa solo e soltanto dei primi, perché questo è l’unica cosa che sa fare. Ciò ha provocato un tale cortocircuito e un tale malessere nella categoria che perfino quell’istituzione non propriamente fulminea che è l’OdG se n’è resa conto, scavalcando di fatto il sindacato e tentando di ricomporre la frattura con il varo (per ora più simbolico che altro, ma non a caso osteggiato dal sindacato medesimo come un’indebita invasione di campo) della cosiddetta Carta di Firenze, che corresponsabilizza la catena di comando tra colleghi. Sullo sfondo, una categoria allo sbando dopo troppi anni di sinecura. Dove ognuno è, a modo suo, precario. Dove chi fino a ieri si riteneva al sicuro comincia a provare l’inquietante sensazione delle vertigini professionali. E dove il grosso dell’attività è rimasta (o volutamente lasciata?) in mano a una marea di soggetti che, praticandola a tariffe (e a volte con modalità) da dilettanti, trascinerà piano piano a fondo ciò che resta del giornalismo.
Con tutte le sue sterili o strumentali polemiche tra colleghi.