La pietosa rissa ideologica che fa da sfondo all’idea del ministro Tremonti di concedere per 90 anni le spiagge ai “privati” la dice lunga sullo strabismo degli italiani e sulla loro incapacità di togliersi il paraocchi anche davanti alla più solare evidenza.

Tutto (o almeno molto) sta nell’aprioristica convinzione, insana e soprattutto smentita dai fatti, che “pubblico” sia bello e “privato” sia brutto. E cioè che al primo corrisponda la virtù e al secondo il vizio.
Una generalizzazione biunivocamente ridicola, ma che sulla gente produce una sorta di immediato effetto pavloviano. Anzi: a giudicare dalle reazioni, un tarantolamento vero e proprio.
Sia chiaro: quella di concedere agli imprenditori un novantennale diritto di superficie (senza troppo sottilizzare giuridicamente, diciamo una proprietà a tempo, limitata però da una serie di condizioni) sulle spiagge italiane non pare una grande idea. Come in generale tutte quelle che tendono a monetizzare, anziché tutelare, il patrimonio collettivo. Demagogica, impraticabile, incontrollabile, troppo lunga (pensiamo a quante cose succedono in quasi cent’anni e se oggi potremmo stare qui a disquisire su qualcosa di istituito e pensato per la realtà del 1921). E motivata con ragioni a dir poco umoristiche (“…è per evitare che cada in mani straniere”… mah!, neanche fossero segreti di stato).
Ma lo strepitare isterico di quelli che, a priori appunto, vedono in qualsiasi forma di concessione o privatizzazione una rovina, una svendita, una minaccia al bene pubblico, mi fan sorridere anche di più.
Sono forse convinti che lo Stato sia un buon gestore, o anche solo un buon custode, delle sue cose? L’evidenza quotidiana dimostra, con assoluta certezza, il contrario: ciò che è pubblico è di norma sciatto, trascurato, impunemente vandalizzato, abusato, oggetto di malversazioni, corruttele, saccheggi, danni, interessi privati di delinquenti, furbi, politici, dei loro amici e dei loro clienti.
Non c’è bisogno dei filmati di Striscia la notizia o delle denunce delle più varie associazioni: basta affacciarsi ad un qualunque arenile, fare due passi sul greto di un fiume, visitare giardinetti, monumenti, edifici pubblici per accorgersi di questa incontrovertibile verità.
Fa quindi specie la contrapposizione ideologica tra le equazioni pubblico = buono e privato = cattivo a cui si sente inneggiare adesso, dopo la sortita di Tremonti.
Il quale ha detto due cose inoppugnabili. La prima è che il bene pubblico concesso in uso rimane pubblico (e potrà tornare in mani pubbliche in caso di utilizzo non corretto da parte del concessionario). La seconda è che, per avere la concessione “bisogna essere in regola con fisco e con la previdenza”. Non è poco. Intendendo con questo e estensivamente, si auspica, che lo Stato vigilerà non solo sulla regolarità della situazione al momento della nascita del rapporto, ma sul mantenimento nel tempo di tale regolarità.
Se ne dubita? Il dubbio è legittimo. Perché anche il passaggio silenzioso dall’uso all’abuso è un classico di questo benedetto paese. Ed è su questo che bisogna insistere: è tutto, come sempre, una questione di norme chiare ed applicate, di regolarità, di rigoroso controllo. Cioè di effettività e di certezza.
Perché a me, francamente (ma credo a qualunque cittadino), di avere spiagge teoricamente “di tutti” (se le detengono gli altri) e praticamente “di nessuno” – sudice, abbandonate, piene di abusi impuniti ed eterni – (se non le detiene nessuno) importa il giusto. Anzi, parecchio. Nel senso che proprio non le voglio. Meglio private, allora.
Eppure, il messaggio non passa. Non si riesce a uscire dal dualismo. E tutto si ridivide in fazioni, bianchi e neri, guelfi e ghibellini, destra e sinistra.
Poi si va al mare a ferragosto, in spiaggia libera ovviamente, e sembra di stare in discarica.
Fine delle illusioni. Ammutolimento degli idealismi. Perché il bagnante libertario vuole la sabbia pulita. Giusto. Vuole il lido “pubblico”. Altrettanto giusto. Ma “servito”: di bagni, ampi e asfaltati parcheggi, magari un chioschetto, illuminazione pubblica, sorveglianza, manutenzione. Vuole, in definitiva, un litorale “consumabile”, usabile. Poco importa se questo costa, inquina, comporta scempi, movimenti terra, ruspe, fuga della fauna, distruzione della flora. Basta che sia “pubblico”. Insomma, che se ne faccia carico Pantalone.
E allora viene voglia di dare ragione a Tremonti