Nella scuola di sci degli anni ’70, lo scodinzolo era una tecnica complessa che veniva insegnata al 6° corso, il più alto di livello.
Non so se i giornalisti siano tutti sciatori, ma molti a scodinzolare sono bravissimi. Sia dietro al padrone, sia a chi lo potrebbe diventare, sia a chi semplicemente potrebbe concedere due battute e offrire a ognuno un quadro d’ora d’illusorio scoop.
A corollario di questo singolare scodinzolo giornalistico ci sono il “tu” d’ordinanza elargito a tutti e accettato da chiunque e l’affettuosa quanto, per pura convenienza, ostentata familiarità con personaggi dei quali, finchè non contavano nulla, si pensava e si scriveva peste e corna, ma ora che contano si blandiscono stucchevolmente (senza aver cambiato idea su di loro, si capisce). Riservando il destino opposto, va da sè, agli idoli di ieri.
La riprova s’è avuta la settimana scorsa a Siena con l’arrivo in città di Matteo Salvini per il Palio di luglio e la successiva nuotata antimafia.
Sulla circostanza si sta leggendo e sentendo di tutto.
Ora dico: che il Ministro degli Interni avrebbe fatto, come ha fatto, di ogni per trasformare il suo arrivo nell’espugnata Siena in un evento mediatico capace della massima eco, era prevedibile e perfino ovvio. Lo stile è quello, non finissimo certo, ma redditizio in termini di risultati, come i fatti dimostrano inequivocabilmente. E in fin dei conti, considerati i mutamenti di orizzonte politico intervenuti nel frattempo, si tratta di un metodo nemmeno troppo dissimile da quello utilizzato per copiosi decenni dai potentati suoi predecessori, ma di diverso segno. L’unica reale differenza è infatti che quelli, essendo a Siena “di casa” da sempre, si limitavano a sottolineare con un monitorio silenzio di squisito sapore sovietico la propria presenza, come a dire: qui ero, qui sono, qui sarò per sempre, tenetelo bene a mente (mai avrebbero immaginato che potesse succedere il contrario, questo è però un altro discorso). Salvini ha scelto invece l’obbligata via del clamore. A cui tutti, stampa e cittadinanza, hanno subito e forse volentieri abboccato.
La fotogalleria paliesca del passato anche recentissimo – basta farsi un giro in rete – è piena infatti di istantanee che ritraggono banchetti, scampagnate, reciproche baciature di laici anelli, genuflessioni varie, momenti d’intimità, immissiones in manu di genuino tenore feudale tra le autorità locali e (vado a memoria) gli allora onnipresenti Jotti, D’Alema, Amato, Mussari, Bassanini, Bindi e perfino Sofri. Dico Sofri. Per non rievocare le sempre cordialissime pacche sulle spalle tra quei personaggi e i rappresentanti della stampa.
Si trattava d’immagini rituali, ad usum populi, che avevano la stessa funzione didascalica dei grandi affreschi sacri dipinti una volta sulle pareti delle chiese: fare capire a tutti, ma proprio a tutti, chi comanda, chi sta sopra, chi sta sotto, chi va all’Inferno e chi lo decide.
Per i senesi era insomma normale, fatalisticamente inevitabile, che il papavero si mostrasse boriosamente alle trifore nella sua silenziosa epifania o, scamiciato e sorridente, si concedesse a passeggio nel corso per stringere le mani a clienti, amici, agnati e cognati politici e non: i cittadini si erano assuefatti, talvolta rassegnati e, per convinzione o convenienza, nessuno o quasi pareva aver nulla da eccepire.
Francamente ora non vedo alcunchè di strano se un nuovo potente, finchè dura come tale e nel momento del suo esordio assoluto sul proscenio cittadino, usa il medesimo metodo dell’appariscenza per mettersi in mostra e lucrare visibilità.
L’argomento, politicamente strabico, della presunta strumentalizzazione del Palio da parte del ministro leghista è, oltre che patetico, ridicolo: in politica tutto è strumentalizzato e strumentalizzabile e il Palio, come è stato giustamente osservato, è sempre stato un “terrazzo del potere” da cui chi comandava si affacciava. Se poi si preferisce, per dialettica, guardare il dito-Salvini anzichè la luna-Palio o invertire l’ordine logico dei fattori, si faccia pure.
Mi sorprendo casomai che alcuni giornalisti abbiano fatto finta di sorprendersi e l’abbiano usato per costruirci titoli, sviando così anche un po’ dell’attenzione da sè e dalla propria sottile ambiguità.
Ma come mi ha detto un saggio collega, certamente non amico di Salvini, la città e il paese sono divisi tra blocchi che si odiano, inutile aspettarsi obbiettività o almeno distacco.
Ha ragione.
Io però continuo a credere che i giornalisti siano nel loro intimo sì liberi di pensarla come vogliono, ma che nell’esercizio della professione debbano anche mostrare, nei modi oltre che negli scritti, una maggiore equidistanza. Il che li preserverebbe anche dal rischio di imbarazzanti marce indietro successive e dalla necessità di riposizionamenti strategici quando il vento cambia giro.