“Sul fotovoltaico nelle campagne non c’è alcuna mediazione possibile”, dice secco Vittorio Sgarbi denunciando il pericolo di uno scempio nel nome della false prospettive dettate nel mondo agricolo dal miraggio della conversione dei campi in sede per impianti di produzione di energie alternativa. sono d’accordo con lui. E spiego perchè.

I redditi agricoli, già magri e talvolta trasparenti, sprofondano. Non ovunque, ma purtroppo proprio dove fa più male e più comodo: nella collina interna, in montagna, nei luoghi plasmati da una millenaria civiltà rurale che ha saputo pian piano piegare la natura in un paesaggio che, in tante parti d’Italia, ha del miracoloso e ha stordito chiunque l’abbia potuto ammirare. Per la sua ottundente bellezza, pur essendo frutto non di un’opera d’arte ma della necessità di offrire un reddito (e quindi di tutelarne ad ogni costo la fonte) a generazioni e generazioni di agricoltori. Grandi e piccoli, nobili e contadini, imprenditori e coltivatori. Un paesaggio capace di trasmutarsi nei secoli con solenne lentezza, adattandosi pian piano alle mutate esigenze colturali, economiche e sociali dei tempi, senza tuttavia mai abdicare alla sua naturale vocazione: cioè al bello. Un bello non cercato però, non scientemente perseguito, non progettato, ma determinato soprattutto dal rispetto profondo, dalla consapevolezza, dalla necessità inderogabile di non ferire in profondità un bene irripetibile, non rinnovabile, quale è la terra e ciò che la storia ci ha stratificato sopra. Quando non è stato così (ed è accaduto spesso da cinquant’anni a questa parte, grazie all’avvento di una meccanizzazione e di una strapotenza tecnologica che ha reso possibile di realizzare in pochi giorni – e irreversibilmente – opere che prima sarebbero state impossibili in anni), il risultato è stato catastrofico.
Ma le lezioni del pur recente passato non insegnano nulla.
Il ricatto morale è subdolo. Sempre lo stesso: creare ricchezza, nuovi posti di lavoro e redditi sostitutivi di quelli scomparsi, far girare l’economia, difendere “l’ambiente”. E viene anche il sospetto che in campagna certe sfortune economiche siano pilotate, o almeno “agevolate”, per rendere “inevitabili” certe scelte, certe riconversioni. L’industrializzazione della cerealicoltura ha portato a spazzare via l’organizzazione poderale del suolo e, nel nome della monocoltura, a “spianare” la magnifica varietà orografica e la preziosa biodiversità di certe regioni. L’industrializzazione del vino (e la sua ancora più deleteria deriva finanziaria) ha spinto aziende sempre più managerializzate e sempre meno consapevoli a piantare vigneti dove nessuno con una minima cognizione di agronomia si sarebbe mai sognato di piantarli. L’industrializzazione dell’agriturismo e la connessa sindrome da villettismo hanno indotto migliaia di baggiani a rifilare di cipressi certe strade sulle quali il saggio agricoltore aveva o avrebbe messo gelsi o olivi, non certo una bella ma improduttiva conifera che ha storicamente finalità decorative per ville e dimore, funzioni frangivento o topografiche, ma mai agricole.
Ora che, dopo infinite sinecure e clamorose miopie, l’agricoltura collinare è in agonia terminale e la popolazione rurale vede da vicino lo spettro di una povertà vera, quasi steinbeckiana, che sembrava scacciata e dimenticata, ecco che dal cilindro qualcuno estrae l’attività alternativa, la panacea, il magico e politicamente corretto coniglio, il business in cui gli ormai quasi ex agricoltori potranno buttarsi per fare “easy money” mettendo finalmente a facile frutto l’unica cosa che gli è rimasta in mano, cioè la nuda terra: le energie rinnovabili, l’eolico, il fotovoltaico, i certificati verdi e tutta l’ubriacatura che ne consegue.
Il messaggio è semplice e lineare: addio aratri e trattori, al diavolo viti, olivi, grano, girasole, bestiame. Demolite stalle e capannoni. Via tutto. Un colpo di ruspa, un buon consulente, un fiume di finanziamenti pubblici che vengono da Bruxelles, una bella spianata e via a costruire km quadrati di vetro pronti a catturare i raggi solari, per trasformarli in energia elettrica da vendere sui lucrosi mercati. Oppure a disseminare i crinali di gigantesche eliche.
Certo, perchè queste sono tecnologie che hanno bisogno di grandi spazi e di grandi superfici all’aperto. E chi ce le ha, se non gli agricoltori che da anni annaspano per sopravvivere?
Non mi addentro, non essendone all’altezza, nel pur spigoloso dibattito sulla reale efficienza e l’economicità di questi sistemi . Come si potrebbe, del resto, essere a priori contrari allo sviluppo delle cosiddette energie rinnovabili (“Give me the warm power of the sun…”, ricordate?, cantavano ai tempi di No Nukes, fine anni ’70, i già un po’ invecchiati James Taylor e Carly Simon)? Resta però il fatto che si tratta tecnologie fortemente invasive, che richiedono allocazioni violente, sterri, scassi, scavi, abbattimenti, estirpazioni, colate di cemento, ancoraggi, cemento armato, strade costruite apposta per raggiungere i siti con grandi mezzi, installazioni per la manutenzione e il controllo. E che mutano per sempre, lasciandolo deserto quando dovessero essere dismesse, il paesaggio su cui sorgono e ciò che lo costituisce, cioè la campagna, i campi e i luoghi nel senso anche antropologico del termine. Il paesaggio, appunto.
Un impatto estetico fortissimo, tale da cambiare volto a regioni intere, un “segno” permanente sul suolo, difficilissimo da far rimarginare.
Tutto viene trasfigurato e nulla può tornare come prima.
E’ per questo che certe scelte a favore del fotovoltaico (ettari e ettari di specchi installati su tetti, campi, fianchi di colline) e dell’eolico (sono ormai migliaia le pale messe a dimora in Italia, nella maggior parte dei casi con risultati mediocri o nulli in termini di produzione di energia, ma con effetti estetici devastanti) andrebbero fatte dopo attentissime ponderazioni e soprattutto tenendo ben presente il rapporto costi/benefici di queste stesse scelte.
In proposito, una posizione decisamente contraria, senza se e senza ma, l’ha presa ad esempio (vedi qui) Vittorio Sgarbi. Il quale non solo da sempre si scaglia contro le brutture e i guasti provocati dagli impianti eolici e fotovoltaici, ma denuncia anche il fatto che spesso, dietro di essi, ci sono pochissimi vantaggi e moltissima leggerezza, superficialità, approssimazione, speculazione, collusione, infiltrazioni malavitose. “Sul fotovoltaico nelle campagne non c’è alcuna mediazione possibile”, dice secco il sindaco di Salemi, assumendo con ciò un atteggiamento apprezzabilmente netto sulla questione. Un atteggiamento rigido, esplicito, che non ammette alternative.
Sono d’accordo con Sgarbi. Non solo nel merito, ma nel metodo. Ci sono questioni che vanno risolte con scelte nette e quella relativa alla conservazione del paesaggio (un paesaggio, lo ripeto, inteso come risorsa fondamentale, come bene culturale e come tratto distintivo) è certamente una di queste. I compromessi e gli equilibrismi non sono ammissibili quando la posta in gioco è di questa portata. E, se si deve scegliere tra una soluzione economica e una soluzione “umanistica”, io sto senza esitazioni per la seconda.