Soundtrack: “Pilgrim Soul“, Jason McNiff.
Si chiama Jason McNiff e nello scorso settembre ha pubblicato il suo quarto disco, “April Cruel”. Tanto bello che ci ho messo otto mesi ad arrendermi all’idea che fosse un capolavoro. Questa è la mia recensione.
Ad ascoltarlo di primo acchito, senza sapere nulla di lui, sembra che abbia studiato a fondo sui libri di testo fondamentali del songwriting americano, perché ci senti forte e chiaro l’eco di Dylan e la deriva dei suoi epigoni veri, presunti o mancati. Tanto forte che a volte ti pare di ascoltare l’Elliott Murphy di “Twelve” o lo Steve Forbert di “Little Stevie Orbit”. Ma poi appaiono qua e là sentori chiarissimi di Simon & Garfunkel, di un certo pianismo a stelle e strisce degli anni ’70 e le atmosfere care alle produzioni newyorkesi di quegli anni, per non dire di tanti padri nobili (Neil Young?) ben radicati nell’uditivo collettivo.
Dopo, pian piano, ti stupisci anche della raffinatezza e dell’originalità degli arrangiamenti, della loro tessitura complessa e setosa, dell’amore per il cesello strumentale e per qualche arabesco virtuosistico, ma nulla, assolutamente nulla che appaia appena fuori misura, mai un’ombra di fastidio a incrinare quella voce di gola e un po’ nasale capace di toccare parecchie corde al tempo stesso. E tutte profonde.
Il terzo stadio ti porta a scoprire infine un altro certo amore per polke e gighe sparse qua e là tra i solchi del sottofondo, echi folk e country fiddles, i tappeti percussivi di suole battute con delicatezza su un piancito di legno polveroso, il tutto condito con qualche eterogeneo ma solido bagaglio di tradizione.
Allora prendi il disco (ops, oggi si dice cd), lo scruti con qualche stupore e scopri che il musicista è inglese. Per la precisione dello Yorkshire, ma con genitori polacchi e irlandesi. Così come è britannica la casa discografica che lo pubblica, la Fledg’ling Records, costola della gloriosa Topic, colonna della musica popolare delle Britsh Isles.
Aggrotti la fronte, ti siedi e suoni il disco ancora e ancora e ancora.
Alla fine ti convinci che questo “April Cruel” è proprio bello, anzi bellissimo. E che il suo misterioso autore, Jason McNiff, è un personaggio bizzarro, trovatore e chitarrista, girovago ed eclettico, titolare di altri tre album già inevitabilmente divenuti oggetto di un piccolo e tenace culto.
Dotato di un tocco chitarristico raffinato, di una voce duttile, di una capacità di impatto priva di filtri e di una verve emotiva quasi palpabile, McNiff si muove con disinvoltura tra i generi, forse proprio perché non ci fa caso, senza far mancare al suono un feeling frusciante, fresco e che sa di affascinante spontaneità. Qualità che, nella loro più riconoscibile vena british, affiorano anche nelle esibizioni live (ho scoperto che ha suonato quest’inverno anche in Italia, ove coltiva ampie frequentazioni, ma purtroppo non lo sapevo), colte qua e là in rete e anch’esse oltremodo convincenti.
Insomma, era nata una stella e non ce n’eravamo accorti.
Una stella che non sa di generazionale, non puzza di rivoluzione un tanto al chilo, non denuncia afrori nostalgici, non vuole fare scuola e riesce agilmente a planare sopra tutto questo, prendendo qualcosa da ognuno senza doversi far tacciare di plagio.
A dimostrazione che di musica buona in giro ce n’è tanta.
Basta trovarla.