di URANO CUPISTI
Fu l’ultimo viaggio fatto con mio padre marinaio. In parte, almeno: approfittai di un suo “passaggio”. Dovevo raggiungere Guayaquil e la sua nave passava proprio da quelle parti. Del resto Ecuador e Galapagos erano il mio sogno fin da da ragazzino…
Fu l’ultimo viaggio con mio padre. Almeno in parte, perché approfittai di un suo “passaggio” per iniziare un’avventura “in solitaria” in un paese già oggetto delle mie fantasie da adolescente.
L’Ecuador, è sempre stato nelle mie corde. Sconosciuto ai più. Ma famoso per il suo arcipelago: le Galapagos.
Ormai maggiorenne, con alle spalle tanti viaggi con mio padre, decisi che era arrivato il momento del “big one“, da solo, come nel sogno di un ragazzino sulle orme di Darwin.
Correva l’anno 1968. Era anche l’anno dell’ultimo viaggio di mio padre, ormai prossimo alla pensione dopo anni e anni di mare.
In quel tempo lui faceva la spola tra Europa e Sud America, come non approfittarne? Quella volta il suo piano di navigazione partiva da Savona e toccava, Santana (Brasile), Buenos Aires, Punta Arenas (Cile), Valparaiso (Cile), El Callao (Perù). E infine Guayaquil (Ecuador).
“Ci rivediamo tra un mese. Per il ritorno in Europa”.
L’aereo per Quito mi aspettava.
La vita frenetica delle città sudamericane non è diversa a Quito. La trovai irrimediabilmente compromessa, un po’ avvilita. Il fascino della Piazza Centrale, della Cattedrale mi sembrarono cartoline ingiallite dal tempo. Dovevo fuggire velocemente.
Provai l’emozione di calpestare il parallelo 0, l’equatore. L’immancabile foto sotto il monumento con scritto “0”, “0”,”0” Lat.
Per ritrovare la forza del paesaggio, la solennità dei rumori ancestrali, i ritmi dei giorni scanditi dalla mañana e dalla tarde, dovevo dirigermi a sud fino ad arrivare all’antica città di Santa Ana de los Rios de Cuenca, nella Sierra Ecuadoregna.
Ritrovai la magia delle visioni andine, storie raccontate da uomini incontrati nel lungo viaggio, i costumi variopinti, elementi di diversità delle loro abitudini, dei loro ideali, delle loro vite. Il confronto della nostra e la loro umanità, le differenti scelte, la coraggiosa ricerca del domani.
Dopo quattro giorni era giunta l’ora di lasciare Cuenca e riprendere il cammino per scendere verso il mare, per nuove avventure lasciando alle spalle le ultime bevute in quella taberna nel vicolo Santa Ana.
Fu un lungo viaggio verso Guayaquil dove avevo lasciato la nave con mio padre, tra piantagioni di caffè e stenderie dello stesso lungo l’asfalto delle strade. Una tappa di una intera giornata iniziata all’alba e conclusa al tramonto. Un viaggio di centinaia e centinaia di chilometri, interminabile verso l’Oceano Pacifico. La carretera nacional, sinuosa, perdeva piano piano di quota. A bordo dell’autobus “de luxe” le cantilene delle lingue tra loro diverse echeggiavano e mi accompagnarono per tutto il viaggio. Sensazionale paese l’Ecuador.
Non avevo l’appuntamento con mio padre. Ancora non era previsto l’incontro per il ritorno ma l’inizio dell’avventura Galapagos.
Guayaquil anche negli anni Sessanta, in continua crescita ed espansione, già dava la sensazione di mini-metropoli turistica. Anche allora c’erano posti dove si scommetteva sui campionati di calcio o si frequentavano i casinò costruiti dagli americani. A Guayaquil ai troppi turisti presenti, in grande maggioranza statunitensi, non interessava la differenza tra le varie etnie incas , la fauna e flora andina. Solo giocare nei casinò e spedire le cartoline agli amici.
E parte di questi turisti, ahimè, li ritrovai al mattino sul molo di partenza della nave dal nome scontato: Isla Isabela. Direzione Galapagos, vetrina dell’evoluzione.
Trovarmi in compagnia di rumorosi americanos tutti bardati con le magliettinecon su scritto I love Galapagos non è stato il meglio auspicato.
Meno male che, arrivati a Isla San Cristobal, riuscii ad imbarcarmi su di un’altra nave, più piccola della precedente, anche questa dal nome scontato Isla Floreana. Il trasbordo nel porto di Puerto Ayiora fu un atto liberatorio. Mi trovai con altri viaggiatori motivati, diretti come me alle Isole Incantate.
L’Isla Floreana altro non era che un vecchio peschereccio molto folcloristico nei colori, che camuffavano una carretta.
Le discese a terra, sempre accompagnate dai guarda-parque mi portarono a convivere con le sule dai piedi azzurri, fregate magnificens (quelle che gonfiano il petto dal colore rosso vivo), otarie e pinguini, albatros, cormorani, iguane marine e quelle terrestri gigantesche e le famose tartarughe.
La cosa che porterò per sempre dentro di me è stata la facilità della convivenza con questi straordinari animali, nell’avvicinarli, toccarli.
Scrisse Darwin durante uno dei suoi viaggi da quelle parti: ”Tartarughe giganti dal collo e zampe lunghe. Possono raggiungere le foglie degli arbusti proprio per la loro conformazione di arti e collo allungati”. Osservarle, toccarle e poi raccontare.
Ho detto otarie e pinguini. Mi chiesi: come possibile in isole poste all’Equatore possano convivere specie che ritroviamo nei mari antartici?
La risposta: la corrente fredda da sud verso nord (ricordiamoci che siamo nell’emisfero meridionale) che passa sotto il nome di corrente di Humboldt ne è la causa e rende magica, con le inevitabili nebbie, la visione di questo arcipelago.
Percorsi tracciati precisi da rispettare e non oltrepassare. Delimitati da staccionate costruite dai guarda-parque per non alterare la complessa struttura dell’habitat, fauna e flora.
Furono cinque giorni trascorsi nel più grande museo vivente condividendo i pochi posti letto della carretta Isla Floreana con gli occasionali, compañeros de viaje.
Al ritorno sull’Isola Isabela, la più grande delle isole, l’ascensione sulla vetta del vulcano Alcedo.
La vista dell’immensità delle Galapagos: le tredici più grandi e una quarantina di isolotti, formazioni laviche con bocche vulcaniche. Straordinaria scenografia rivissuta dopo un ventennio, nelle immagini del film “Master & Commander”. Un ambiente così primordiale che ti fa comprendere la fragilità di una natura da difendere e preservare
Ritorno a Guayaquil. L’attesa di mio padre. Passò solo un giorno e iniziò Il viaggio di ritorno attraversando il Canale di Panama, il porto statunitense di Baltimore (Maryland) e l’arrivo a Savona.
Mio padre scese dalla nave senza voltarsi: era la fine di una carriera importante. Per me accompagnarlo è stato un momento di profonda riconoscenza: ogni nostro viaggio insieme è stato vissuto con la consapevolezza che era frutto di sensibilità e voglia di sapere.
Dove lui concludeva il viaggio professionale, io cominciavo la mia vita da adulto. Un rito di passaggio.
Del resto, chi non ha mai chiesto un passaggio al proprio padre?
Ma averne su una nave, da un continente all’altro, è un privilegio riservato a pochi. Io l’ho avuto.
Grazie.