Il sottosegretario con delega all’editoria si appresta a uccidere un burattino già morto, ma resuscita così anche l’ormai inutile cicaleccio dei militanti in materia. Invece di lasciare in pace il defunto, ci si esercita nell’accanimento terapeutico sul cadavere.
Qualche tempo fa, su uno dei post più letti di questo blog (qui), mi ero divertito a paragonare la telenovela dell’equo compenso dei giornalisti a quel capitolo del libro di Pinocchio in cui il burattino, moribondo a casa della fata Turchina, langue esanime mentre attorno a lui illustrissimi dottori si accapigliano con circonlocuzioni reciproche, cercando di spiccare diagnosi senza contraddire i colleghi.
All’epoca si discuteva in Senato sul significato di equo compenso. E l’esito dell’infinito dibattito non poteva che essere grottesco come quello che in effetti fu partorito.
Ero tuttavia convinto che il peggio dovesse ancora venire.
E infatti, un paio d’anni fa, il peggio è venuto: accordi sottobanco, falsi equivoci, effetti ridicoli, poi impugnati e cassati in tribunale, con il risultato di far tornare tutto al punto di partenza. Una specie di patetico gioco dell’oca.
Nelle more, va da sè, il paziente è morto.
Peccato però che non si trattasse di un pupazzo frutto della fantasia, ma di un’intera categoria di lavoratori in carne e ossa: i cosiddetti giornalisti autonomi. O almeno quella parte di essi che non gioca a fare il giornalista, ma prova a farlo davvero, cioè campandoci.
Ho da mo’ smesso di occuparmi della questione, divenuta inutile e noiosissima. E per la quale ormai neppure più mi arrabbio, forse appena mi amareggio, con abbondante distacco.
Ma il proverbio aveva ragione: al peggio non c’è mai fine. E forse neppure hanno fine la stupidità, la malafede, la scarsa professionalità e la capacità di strumentalizzazione dei troppi attori che recitano questa tragicommedia.
Ad aggiungere un nuovo capitolo alla già penosa vicenda, in cui il sindacato e molti suoi illusi o collusi aficionados sguazza, ben assecondato dalla finta controparte Fieg e dai burattini della politica, ci pensa ora il biondocrinito sottosegretario con delega all’editoria Luca Lotti, fedelissimo del premier e (perfino comprensibilmente) in altre ben più serie faccende affaccendato.
Il quale, sollecitato a smuovere le acque impaludate in cui la questione equo compenso stava affondando in silenzio, forse con vantaggio e certamente con maggiore dignità di tutti, se ne esce adesso con un’affermazione sibillina dai probabili fini elettorali, che sortisce l’unico, sciagurato risultato di rianimare i sopiti argomenti (soprattutto digitali).
Intervenendo a Teramo a proposito della legge sull’editoria, ha infatti ritirato fuori dal cilindro l’equo compenso e ha dichiarato: “Ci siamo già impegnati una volta, stiamo discutendo ancora sulle cifre, riconvocheremo anche lì il tavolo, sempre con attenzione ai giornalisti e all’equo compenso che è un nome un po’ strano, a me piace chiamarlo in altro modo, ma ci stiamo impegnando. Siamo pronti a riconvocare il tavolo anche subito“.
Mentre il mondo si interroga su quale sia il nome che piacerebbe a Lotti (i bookmaker puntano su “fair compensation“: vuoi mettere il fascino che ha l’anglobecero sugli italiani?) e i militanti, professionali e non, della materia affilano di nuovo le armi della relativa dialettica, nessuno pare accorgersi che stiamo per assistere a un caso più unico che raro nella storia dell’umanità: l’accanimento terapeutico su un cadavere.
Lascio volentieri agli appassionati le stanze anatomiche di una professione defunta.
Mi auguro solo che la sceneggiata non generi nuovi, illusi necrofili.